The Beatles: Get Back, la recensione del documentario su Disney+

The beatles get back 1

Le sessioni per quello che sarebbe divenuto l’ultimo LP dei Beatles, Let It Be, sono un capitolo famigerato nella storia della band. Nel gennaio del 1969, John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si stabilirono in un immenso studio cinematografico nel sobborgo londinese di Twickenham, per tentare l’ardua impresa di registrare un album in due settimane, prima di una data dal vivo.

Le circostanze non erano di buon auspicio. Non avevano un luogo per il concerto, nessuna canzone pronta e, soprattutto, non andavano d’accordo. Dopo aver smesso di esibirsi in seguito all’estenuante tour statunitense del ‘66, la band aveva avuto più tempo per dedicarsi alla produzione musicale, percorrendo strade sempre più sperimentali. Nel corso di soltanto tre anni, i fab four avevano pubblicato quattro album tra i più influenti della storia, in ordine cronologico: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, Magical Mystery Tour, l’Album bianco e Abbey Road.  Nonostante ciò, il gruppo era sul punto di rottura. McCartney sperava quindi che l’esperienza di suonare di nuovo insieme davanti ad un pubblico, come durante i loro touring days, avrebbe restituito alla band un po’ del suo vecchio cameratismo.

Ancora sotto contratto con la United Artists per la realizzazione di un terzo lungometraggio a seguito di A Hard Day’s Night e Help!, i Beatles permisero l’accesso allo studio al regista Michael Lindsay-Hogg, assunto per registrare il dietro le quinte dell’album. Il suo special televisivo, Let It Be – Un giorno coi Beatles, della durata di 81 minuti, venne trasmesso nel marzo del 1970, circa un mese prima dello scioglimento del gruppo.

Beatles Get Back Studio 2

A distanza di poco più di mezzo secolo da queste registrazioni, l’acrimonia del periodo ha assunto una fama leggendaria: Paul era diventato tirannico, si racconta; George non sopportava più nessuno; John dipendeva sempre più da Yoko; Ringo si isolava. Il quadro che invece emerge da questo epico ritratto costruito da Peter Jackson è forse meno sensazionalistico, ma certamente più interessante.

The Beatles: Get Back (trailer), documentario in tre episodi dalla durata di quasi otto ore totali, è un monumento alla band di Liverpool. Imponente e rivelatore, fa da baluardo contro gli innumerevoli libri e articoli scandalistici, raccontando i quattro cantautori semplicemente mostrandoli dal vero. In parte è un correttivo, in parte una conferma, ma non c’è dubbio che qualsiasi valutazione futura sulla band e sui suoi membri dovrà misurarsi con quest’opera.

Quattro personaggi così mitizzati dalla cultura pop che talvolta pare scioccante vederli presentare come persone reali, quattro giovani ragazzi che fumano, chiacchierano, bevono tè e strimpellano le chitarre. Il film salva specialmente McCartney dall’immagine di fine carriera di presuntuoso crooner rubacuori. Eccolo nel pieno delle sue forze: giovane, esuberante, deciso, ma anche molto autoironico.

Le divisioni ci sono eccome, ma emergono in silenzio. McCartney stesso è un leader riluttante. «I’m afraid to be the boss», dice. A George più che a tutti manca Brian Epstein, manager morto di overdose nel ’67 che aveva imposto una sorta di equilibrio al gruppo. Lennon pare invece il giullare della band, mai serioso, nemmeno quando la situazione lo richiederebbe. Tuttavia, nonostante tutta la discordia, il rispetto reciproco non viene mai meno, come in una vera squadra di veterani.

Beatles get back concerto

Con tutto il materiale disponibile, in gran parte inutilizzato da Lindsay-Hogg, Peter Jackson aveva circa 60 ore di girato e 150 ore di audio da cucire insieme per il suo film. Maneggiando materiale inedito così prezioso e soprattutto corposo, deve aver fatto appello a tutto ciò imparato realizzando They Shall Not Grow Old (recensione), documentario del 2018 sulla Grande Guerra. Un altro regista avrebbe potuto sentirsi in dovere di tagliare il filmato in modo più dinamico e drammatico, per imporre più pathos nella narrazione. Sicuro della sua reputazione, il regista neozelandese si è accontentato di tenere una mano gentile sul timone. Lunghe sezioni di composizione e improvvisazione trovano spazio tra le importanti discussioni relative al futuro del gruppo.

Inoltre, una lamentela che accomuna la maggior parte dei documentari culturali è il fatto che non si riesca a percepire la magia accadere. Sebbene, per inciso, sia ben difficile comprendere cosa si intenda per “magia”, ecco che nel montaggio di Jackson scorgiamo Paul appartarsi in un angolo dello studio e, in un paio di minuti, ideare il riff di Get Back. John, d’altra parte, rispolvera il suo vecchio repertorio di blues, modificandone i testi; mentre George e Ringo dialogano sul come proporre I Me Mine e All Things Must Pass.

Trascorrendo così tanto tempo assieme alle rappresentazioni più verosimili dei quattro baronetti, quando si giunge alla scena del concerto sul tetto dello studio Apple, lo spettatore arriva a sentirsi parte della band. Spicca un senso di sollievo, che rasenta l’euforia. Ma dopo questo immane impegno, Jackson deve essere esausto. Aspetteremo un po’ di tempo prima del suo sequel dedicato al secondo McCartney, The Lord of the Wings.

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