What Happened Miss Simone?, la recensione del documentario su Netflix

What Happened Miss Simone?

Parlare di Nina Simone significa aprire un varco sulla storia culturale, musicale e politica americana del ventesimo secolo: musicista, cantante, compositrice, attivista femminista e per i diritti della comunità nera. Ma cosa è successo? “What Happened Miss Simone?” Come è arrivata ad essere quella che il mondo ha conosciuto? Il titolo del documentario ripropone la domanda a lei posta da Maya Angelou, anch’essa attivista afroamericana, e rappresenta il primo vettore drammaturgico su cui camminerà l’intero discorso filmico. What Happened Miss Simone? (trailer), prodotto da RadicalMedia, diretto da Liz Garbus e disponibile su Netflix, prova a far parlare nuovamente Nina Simone per rispondere a questa domanda, posta in maniera semplice ma evidentemente complessa. Tra le personalità che sono state vicine nella sua vita e che hanno prestato la loro memoria per la realizzazione di questo documentario, risalta quella di Lisa Simone, sua unica figlia, qui anche in veste di produttrice esecutiva.

La struttura narrativa proposta segue il criterio biografico cronologico, facendo partire la storia dalla bambina afroamericana chiamata Eunice Waymon (nome di battesimo di Nina Simone), che prendeva lezioni di pianoforte da un’insegnante bianca. Visse la prima giovinezza tra la comunità nera e quella bianca privilegiata, e pur nel mezzo di discriminazioni razziali di cui ancora non aveva piena coscienza, aspirava a diventare la prima grande pianista classica non bianca in America. Ma l’iniziale volontà di conformarsi e integrarsi per una vita dignitosa, come altri grandi personaggi del movimento dei diritti per gli afroamericani, si scontrò con l’arrivo degli anni Sessanta. Non era più il momento di fingere, di faticare il doppio per vedersi riconosciuta la metà, era il momento di prendere una posizione seria.

What Happened Miss Simone

Nina Simone passò dal suonare quella che era comunemente detta musica jazz, blues, soul con un personale sottofondo classico a suonare la “musica per i diritti civili”, con l’intenzione di far riscoprire ai neri americani le loro origini, renderli curiosi di sapere chi fossero e che cosa stessero facendo lì. La svolta politica aggressiva ebbe una ricaduta su un clima familiare già complicato dalle violenze del marito e sulla sua carriera discografica. Canzoni come Mississippi Goddam rappresentavano un grido che riunì il sentimento degli afroamericani sotto una ben precisa coscienza, contro la classe bianca dominante. Questo sentimento identitario che vedeva in quegli anni il momento cruciale di fermento e diffusione, è interpretato dal film attraverso le azioni e le parole di Nina Simone: la forza con cui la si vede colpire i tasti del pianoforte diventa subito – con un montaggio alternato a immagini d’archivio che ritraggono scontri di manifestazioni per i diritti – un’estensione rafforzativa di quelle lotte.

La battaglia viveva con tutti i mezzi che si disponevano, anche con la musica: i testi, i toni, gli atteggiamenti irriverenti e carichi di sfida che Nina Simone lanciava dal suo palco come fiammate al mondo esterno, descrivono la determinatezza e l’ardore che animava combattenti per i diritti come lei. Ma a poco a poco, il procedere del decennio vide la scomparsa di punti di riferimento come Medgar Evers, Malcolm X, Martin Luther King. Nina Simone pagò in termini economici, psicologici e affettivi la “sconfitta” politica, che la condusse a iniziare una nuova fase lontana dagli Stati Uniti e in giro per il mondo, lontana dal luogo che l’aveva cresciuta e in cui aveva combattuto per tutta la vita. E allora di nuovo, cosa è successo, Miss Simone? È successo che una donna è divenuta icona. Un’icona che brilla dell’indescrivibile e fugace sensazione di libertà che nasce dalle ceneri della sofferenza e delle ingiustizie. Un’icona musicale, umana, politica, che ha tutto l’aspetto di un’eredità da raccogliere.

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