Re Granchio, la recensione: non è tutto oro quel che luccica

Re Granchio, recensione film di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, DassCinemag

Re Granchio (trailer), scritto e diretto dal duo Alessio Rigo de Righi Matteo Zoppis, rappresenta il loro esordio nel cinema di finzione dopo aver realizzato i documentari Belva Nera e Il Solengo, rispettivamente nel 2013 e nel 2015.

La pellicola inizia mettendo immediatamente in tavola le sue carte vincenti: le immagini. Ogni singola inquadratura di Re Granchio è eccellente e studiata nei minimi dettagli. Girando prevalentemente in esterni tra Vejano (in provincia di Viterbo) e Ushuaia (in Argentina), la talentuosa troupe guidata da Simone D’Arcangelo alla direzione della fotografia riesce a dare al film un valore estetico quasi pittorico, che ricorda vagamente Barry Lyndon di Stanley Kubrick, Le Avventure di Pinocchio di Luigi Comencini e svariati lavori dei Fratelli Coen.

La precisione e la bellezza delle immagini rendono il film una gioia per gli occhi, dall’inizio alla fine. Ma la lode, purtroppo, termina qui. Re Granchio è infatti un film estremamente confuso. Il più delle volte dà l’impressione di non sapere cosa voglia comunicare al pubblico, e l’esempio più lampante è la sua bizzarra divisione in due capitoli: il primo ambientato nella Tuscia, il secondo ambientato nella Terra del Fuoco. Il problema non è affatto la distanza geografica, ma l’apparente assenza di continuità narrativa.

Se il primo capitolo sembra voler narrare una storia d’amore con un pizzico di critica sociale (messa parecchio alla rinfusa) sull’Italia di fine ‘800, il secondo narra della ricerca di un tesoro nascosto nelle montagne dell’Argentina, il tutto condito con alcuni elementi tipici del Western. Gli unici, minuscoli elementi che giustificano la continuità tra i due capitoli sembrano esistere soltanto per pura convenienza, e se non fosse per loro si potrebbe parlare di due film completamente diversi.

Il più grande di questi minuscoli elementi è il protagonista, Luciano, interpretato da Gabriele Silli. Silli è il più bravo all’interno del cast alquanto dubbio di Re Granchio, ma neanche la sua performance è esattamente foriera di miracoli. Riesce a dare il meglio di sé quando recita con il corpo e con gli occhi, non quando parla. Il suo costante bisbigliare rappresenta uno degli elementi più tipici (e fastidiosi) del nostro cinema arthouse odierno.

La performance peggiore è quella di Maria Alexandra Lungu nel ruolo di Emma (l’innamorata di Luciano), che alterna le sue due uniche espressioni facciali con un intercalare romanesco robotico e biascicato. Entrambi gli interpreti, poi, hanno lo svantaggio di non dover pronunciare battute, ma solo frasi ad effetto trite e pompose che cozzano decisamente troppo con l’ambientazione contadina della Tuscia. Inutile dire che la loro relazione non ha il tempo di svilupparsi a dovere né di essere in alcun modo interessante. Le uniche performance vagamente interessanti sono quelle degli attori argentini che interpretano i cercatori d’oro presenti soltanto nel secondo capitolo, fortunatamente superiore al primo per quanto riguarda il comparto narrativo, probabilmente per via della collaborazione alla sceneggiatura di Alejandro Fadel.

Le musiche di Vittorio Giampietro, infine, pur cercando di sottolineare i momenti di tensione con percussioni minimaliste e dipingere in modo autentico il periodo storico con canzoni popolari, non sembrano niente di più che una raccolta di registrazioni etnomusicologiche.

Re Granchio è un film discontinuo, disomogeneo e molto noioso. I suoi 105 minuti di durata sembrano non passare mai, le immagini meravigliose non possono nascondere dei dialoghi pretenziosi e vuoti, e a visione conclusa lo spettatore non avrà imparato nulla. Fondamentalmente, Re Granchio è solo un esercizio di stile. Niente di più, niente di meno.

Il film è in sala dal 2 dicembre.

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