The Handmaid’s Tale, la recensione della terza stagione

La terza stagione di The Handmaid’s Tale (trailer) si conferma un prodotto seriale di successo e soprattutto di grande impatto, dal punto di vista estetico ma anche da quello dei contenuti che, per la loro potenza, sono ormai entrati a far parte del nostro immaginario contemporaneo.

Trasmessa in America nel 2019 da Hulu e in Italia da TIMVISION, la nuova stagione riprende a livello narrativo l’esatto momento in cui eravamo stati lasciati nel precedente finale di stagione. June (interpretata dalla ormai nota Elisabeth Moss), dopo aver affidato la figlia Nicole ad Alex (Alexis Bledel) con il compito di portarla in salvo in Canada, prende la difficile decisione di non fuggire insieme a loro e di restare nell’infernale Gilead.

La terza stagione vede ancora le vicende di June all’interno della dittatura di Gilead ma, adesso, la protagonista ha una consapevolezza diversa, un fuoco vivo che le arde dentro: è pronta a tutto pur di salvare la figlia Hannah e le altre ancelle. June non ha più paura ed è pronta a farsi carico del nuovo movimento rivoluzionario e di resistenza, che abbiamo già avuto modo di intravedere nella precedente stagione e che ha lo scopo di portare dall’interno Gilead alla disfatta. Questo cambiamento della protagonista sarà il vero leitmotiv che manderà avanti la narrazione della terza stagione, segnando un cambio di rotta con le precedenti.

Il fuoco vivo nell’animo di June si manifesta anche nelle scelte stilistiche. Vediamo sempre più luoghi flebilmente illuminati, ideali per alimentare una resistenza pronta a rovesciare l’ordine precostituito, e sempre meno le “coreografie” (ormai un classico di The Handmaid’s Tale) del movimento delle divise rosse delle ancelle che, inquadrate dall’alto, ricordano quasi una danza o una lenta marcia di stanchi soldati. Quello che invece non manca sono le violenze fisiche e mentali a danno delle ancelle, sempre più atroci ed esplicite, a ricordare che la libertà, in un inferno del genere, si può ottenere solo ad un prezzo molto alto.

June, nello scorrere delle tredici puntate che compongono la stagione, acquisisce sempre più i connotati di un personaggio grigio, né totalmente buono né totalmente cattivo; il docile agnellino dei primi episodi della prima stagione, a causa dei molteplici abusi, si è trasformato in un feroce lupo, a tratti assetato di vendetta. Nella sua mente si staglia un nitido obiettivo forgiato da nobili principi, ed è pronta a tutto per stringerlo tra le mani, anche se questo significa perseguirlo con azioni o metodi violenti.

Anche questa terza stagione fornisce largo spazio alla rappresentazione delle figure femminili e alle loro contraddizioni: ai personaggi di Alex e Zia Lydia (Ann Dowd) vengono dedicate due intense puntate che portano lo spettatore ad una maggiore comprensione ed empatia. Una di queste tratta la fuga di Alex in Canada e il suo disperato tentativo di riprendersi la vita che aveva un tempo, ma con la consapevolezza che ormai le violenze subite l’hanno resa una persona diversa. L’altra focalizza invece la vita “pre-Gilead” di Zia Lydia, l’incarnazione della perversione e violenza di una donna verso le altre donne. Sempre più importanza a livello narrativo viene poi data al personaggio di Serena Watherford (Yvonne Strahoski): il suo essere contemporaneamente vittima e carnefice in un sistema che lei stesso ha contribuito a creare, inizia a sgretolarsi. Si delinea un nuovo tipo di donna, consapevole dei suoi errori e intenzionata ad ascoltare il suo cuore e l’amore per Nicole.

Degne di nota e ormai riconoscibili sono la composizione simbolica delle inquadrature di The Handmaid’s Tale, la scelta dei colori e la volontà di trasmette emozioni potenti, legate al destino di una donna costretta a vivere in un mondo ai limiti dell’assurdo. Tutta questa potenza confluisce del finale di stagione, che lascia lo spettatore a bocca aperta e consapevole che forse, il cambiamento tanto desiderato, non è poi così lontano.

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