The Serpent, la recensione della miniserie su Netflix

The Serpent, la recensione della miniserie disponibile su Netflix

Il fascino deforme del vulnerabile. Se dovessimo provare a dare un’etichetta a The Serpent (trailer), questa forse potrebbe essere una definizione pertinente. La miniserie di otto puntate, scritta e diretta da Tom Shankland e Hans Herbots e co-prodotta da BBC e Netflix, racconta la vera storia di Charles Sobrhaj, truffatore e assassino francese nato a Saigon da padre indiano e madre vietnamita, che tra il 1963 e il 1976 si rese responsabile degli omicidi di almeno dodici ragazzi.

Nel clima festoso della Kanit House a Bangkok, Sobrhaj sotto le false vesti di Alain Gautier (Tahar Rahim), adesca giovani hippie, offre loro protezione e ospitalità e una volta ottenuta la loro fiducia, li avvelena assistendo alla lenta morte delle vittime, poi derubate di soldi e documenti. Aiutato dal suo esuberante scagnozzo Ajay (Amesh Edireweera) e sua moglie Monique (Jenna Coleman), fingendosi un commerciante di gemme Sobrhaj cerca persone sole e spaesate da attirare nella sua rete. È un cane sciolto, adotta un modus operandi “camaleontico”, potremmo dire: utilizza i passaporti falsificati delle persone uccise per spostarsi e viaggiare senza lasciare tracce.

Tutto fila liscio per Sobhraj, almeno fino all’entrata in scena di un antagonista benigno a mettergli i bastoni tra le ruote: Herman Knipenberg (Billy Howle), un giovane diplomatico olandese la cui attenzione viene attirata dal ritrovamento dei cadaveri bruciati di due connazionali. Non è un poliziotto, Herman, ma in questa storia ci vuole andare fino in fondo. Cerca invano l’aiuto della polizia tailandese, ma si ritroverà per gran parte della vicenda a condurre un’indagine da autodidatta. Osteggiato dalle forze dell’ordine e dall’ambasciata, Knippenberg potrà contare solo su alleati civili, come sua moglie Angela (Ellie Bamber) e il belga Paul (Tim McInnerny). Se per la polizia i corpi ritrovati non appartengono che a dei rivoluzionari occidentali, per Herman sono dei giovani, ingenui ragazzi come lui, fregati dalla loro stessa curiosità. Da una parte Creonte dall’altra Antigone. Le leggi scritte di Tebe contro quelle non scritte del cuore: Knippenberg è ostinato a scoprire la verità sui due ragazzi olandesi, anche a costo di mettere a rischio la sua carriera.

Bangkok, 1975. Sono gli anni dell’atto finale della guerra in Vietnam e dello shock petrolifero, quelli in cui milioni di giovani arrivano dall’Occidente mossi da un fervente desiderio di acculturazione. Conoscere l’altro per definire meglio se stessi. Sono gruppi di hippie bohémiens legati a ideali di rivoluzione sociale e lotta di classe, “i capelloni” come li chiamava Pier Paolo Pasolini in un suo articolo del Corriere della Sera del ’73:

«Non abbiamo nulla da aggiungere oralmente e razionalmente a ciò che fisicamente e ontologicamente dicono i nostri capelli. Il sapere che ci riempie, anche per tramite del nostro apostolato, apparterrà un giorno anche a voi. Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un’attesa: la quale non verrà tradita. I borghesi fanno bene a guardarci con odio e terrore, perché ciò in cui consiste la lunghezza dei nostri capelli li contesta in assoluto. Ma non ci prendano per della gente maleducata e selvaggia: noi siamo ben consapevoli della nostra responsabilità. Noi non vi guardiamo, stiamo sulle nostre. Fate così anche voi, e attendete gli Eventi.»

The Serpent, la recensione della miniserie disponibile su Netflix

Pasolini immaginava potessero dire questo, i capelloni. Li vedeva come una categoria preverbale; il loro linguaggio era la presenza fisica, il segno identitario dei loro capelli. Così in The Serpent, queste masse di giovani si muovono per le strade di Bangkok con uno spirito silenziosamente intrepido: non hanno paura di un (finto) commerciante di gemme che gli offre aiuto e protezione, anzi, ai loro occhi ingenui è un brav’uomo, fedele nell’amicizia e innamorato di sua moglie Monique.

Ma l’apparenza inganna, per l’appunto. Alain in realtà è Charles e il vero nome di Monique è Marie Andrée. L’inizio della serie dà l’illusione di stare davanti a una coppia in stile Bonnie e Clyde, complici in amore e nel crimine. In realtà non è proprio così. Se da una parte abbiamo Alain-Charles, uno spietato assassino segnato da un passato di discriminazione e un complesso edipico irrisolto, dall’altra sua moglie, il vero personaggio mutaforme della serie. Costantemente in bilico tra una femme fatale e una spaesata borghese in fuga dal Quebeq, quella di Marie Andrée non è una storia di discriminazione e disagio sociale, anzi, è una donna che ha avuto tutto nella vita tanto da non ritrovarsi più. Sarà ammaliata dalle parole di Charles e altrettanto affascinata all’ebbrezza di una vita all’insegna del crimine.

Figura femminile in conflitto, di ispirazione vagamente antonioniana, Marie Andrée si renderà conto di essere la pedina di un gioco più grande di lei e le paure borghesi prenderanno sempre più piede nella sua coscienza. Paure, appunto, continuamente sminuite da Alain, primo attore di una messinscena di cui egli stesso è l’autore. A metà tra il genio calcolatore e l’assassino affamato di rivalsa sociale, Alain ha la ferocia di Tony Montana e la compostezza ipnotica di Pablo Escobar in Narcos. L’interpretazione degli ottimi Tahar Rahim e Jenna Coleman conferisce grande magnetismo ai loro personaggi che formano una coppia incredibilmente bella e irrisoluta, senza mai cadere nei toni del patetismo melodrammatico.

Dal conflitto in terra vietnamita ai sentimenti antiborghesi, passando per una questione razziale velata ma costantemente sullo sfondo. The Serpent è l’affresco di un delicato contesto sociale di inizio anni Settanta, croce e delizia nella sua brama di mettere tanta carne al fuoco, a volte troppa, e questo non sempre aiuta la chiara comprensione cronologica, complici i superflui salti temporali che ostacolano la fluidità narrativa. Peccato, perché la miniserie diretta da Shankland ed Herbots è un prodotto interessante, lodevole di avere una grande cura per la verosimiglianza dei costumi e delle ambientazioni, pur senza intaccare il riguardo verso una sceneggiatura dotata di momenti di grande suspense. È la storia di un antieroe per eccellenza, imprigionato nel narcisismo di una mente diabolica che non conosce sentimenti di pietà. The Serpent è l’elogio dei conflitti irrisolti e delle istituzioni deresponsabilizzate dove la giustizia non è altro che un’idea creativa per gli amanti del “fai da te”.

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