Swarm, la recensione della serie su Prime Video

Swarm recensione della serie di Donald Glover Dasscinemag

Fino a dove si spingerebbe ognuno di noi per inseguire il proprio artista preferito? A volte l’amore per una celebrità può sconfinare in una vera e propria ossessione dai toni deliranti: è il caso di Swarm (trailer) e della sua protagonista Dre (Dominique Fishback). La nuova serie Amazon Prime Video firmata da Donald Glover e Janine Nabers, due delle menti principali dietro alla serie di successo Atlanta, offre una spregiudicata riflessione sulla tossicità del fandom portato ai suoi estremi patologici e lo fa attraverso riferimenti espliciti a persone ed eventi reali in un continuo gioco tra realtà e finzione.

La storia si sviluppa in sette episodi e segue gli efferati omicidi di Andrea ‘Dre’ Greene, fan accanita della cantante Ni’Jah (Nirine S. Brown), che in nome del suo amore per la pop star uccide chiunque dica qualcosa di offensivo nei suoi confronti. La furia omicida di Dre sembra però avere inizio da un evento preciso, la scomparsa della sorella acquisita Marissa (Chloe Bailey) alla quale è fortemente legata dall’adorazione comune che le due hanno per Ni’Jah. Con lei infatti entra in giovane età in una community di fan della cantante su Twitter, piattaforma che si presta al meglio per intercettare haters e opinionisti di ogni tipo, diventando dunque l’arma principale nelle mani di Dre. 

“Qual è il tuo artista preferito?”, questa la domanda a cui, proprio come l’enigma della Sfinge, nessuna delle vittime sa rispondere. In questo quesito iniziale, come in tutto il modus operandi della protagonista, c’è l’ingenuità e l’alienazione di chi non riesce a separarsi dalla propria infanzia: sia negli atteggiamenti che nelle relazioni sociali Dre conserva infatti dei modi di fare bambineschi e inquietanti che in alcuni momenti diventano decisamente disturbanti. Se normalmente l’infatuazione per un personaggio famoso tende dopo un po’ di tempo a sfumare per essere sostituita da nuovi interessi, l’amore di Dre per Ni’Jah comincia da piccolissima e si intensifica fino a degenerare, alimentata dalla forma di controllo che le garantiscono i social.

Nonostante l’argomento della serie sembri non avere niente a che vedere con la corrente afrosurrealista di cui Donald Glover si fa portavoce con una serie come Atlanta, Swarm si aggancia alla riflessione sulla pericolosità di alcuni fandom per rimarcare le problematiche legate alla condizione degli afroamericani. La questione si fa evidente nel sesto episodio della serie, che si distacca completamente dallo stile narrativo degli episodi precedenti passando al genere del mockumentary: assistiamo infatti all’indagine di una buffa investigatrice afroamericana sulla serie di omicidi commessi da Andrea Greene, che a suo dire sono passati inosservati da parte degli organi di polizia, con tanto di foto e documenti che rimandano a persone e fatti reali. La triste conclusione a cui arriva l’investigatrice e a cui probabilmente allude anche il finale della serie, è che il disinteresse nei confronti della serial killer derivi dal forte pregiudizio razziale radicato nella società statunitense e che quindi una fan afroamericana di una cantante anch’essa afroamericana non è alla fine così rilevante da essere oggetto di un’indagine istituzionale.

La ricerca fulminea del nome di Andrea Greene su Google per accertare la veridicità della storia viene spontanea ed è parte del gioco che la serie instaura con chi la guarda, un gioco fatto di continui rimbalzi tra realtà e finzione. Ne è una prova la presenza all’interno del cast di numerosi personaggi famosi esterni (o quasi) al mondo del cinema ma coinvolti quotidianamente nelle dinamiche del fandom, ad esempio la cantante Billie Eilish, che più volte ha dimostrato una certa insofferenza rispetto agli atteggiamenti di alcuni suoi fan e l’attrice Paris Jackson, figlia del cantante Michael Jackson. Per non parlare dell’evidente legame tra la community dei fan di Ni’Jah su Twitter, “the Swarm” (“lo Sciame”), e BeyHive (“l’Alveare”), quella dei fan di Beyoncé in tutto il mondo. D’altronde l’affinità tra i nomi dei due fandom non è il solo elemento che fa pensare alla pop star e probabilmente, conoscendola personalmente, Donald Glover pensa proprio a Beyoncé quando crea il personaggio di Ni’Jah. Tutti questi riferimenti provocatori a persone ed eventi reali producono inevitabilmente un fastidioso effetto di straniamento ma allo stesso tempo caricano il messaggio della serie di un’efficacia e di una potenza dirompenti.

Quello che emerge è un ritratto crudo ma estremamente realistico del lato oscuro che si cela dietro al successo di una celebrità: la componente settaria che sempre più comunità di fan dimostrano di avere, coadiuvata da un pessimo utilizzo dei social (non a caso nella serie compare Twitter, che negli ultimi anni è diventato luogo di frequenti aggressioni verbali tra utenti). I toni sono nettamente più cupi del Glover di Atlanta ma il regista si diverte comunque a spiazzare lo spettatore saltando da un genere all’altro e creando situazioni grottesche per sdrammatizzare una storia che altrimenti sarebbe agghiacciante. Swarm sembra un tentativo di alzare l’asticella del discorso sulla società statunitense intrapreso dai nuovi esponenti dell’afrosurrealismo (Donald Glover, Jordan Peele), sta allo spettatore decidere se assecondarlo o no.

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