Storia di mia moglie, la recensione: il troppo poco che stroppia

Storia di mia moglie, recensione film di Ildikó Enyedi, DassCinemag

Storia di mia moglie (trailer) è il primo lungometraggio in lingua inglese della regista ungherese Ildikó Enyedi, già nota per film come Il mio XX secolo (1989) e Corpo e anima (2017), quest’ultimo vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino. Co-produzione ungherese, tedesca, francese e italiana, è un dramma romantico tenuto insieme dalle competenze registiche dell’autrice, indubbiamente in grado di costruire singole sequenze dal grande impatto poetico e visivo. 

Presentato in concorso alla 74a edizione del Festival di Cannes, il film narra la storia di Jakob (Gijs Naber), capitano di una nave mercantile olandese che scommette con l’amico Kodor (Sergio Rubini) di sposare la prima donna che entrerà in un locale. La sua scelta ricade dunque su Lizzy (Lèa Seydoux), con la quale inizierà una relazione dolce ma travagliata, presto ostacolata dalla gelosia che il protagonista matura nei confronti di Dedin (Louis Garrel), uno scrittore di ricca famiglia, tacciato dal marinaio di essere un fannullone. 

Diviso in sette parti, ciascuna introdotta da un titolo ironico e piuttosto efficace, l’ultimo film dell’Enyedi appare molto elegante, presentando una ricostruzione storica puntuale e realistica, pur risultando infine fin troppo “misurato”, rischiando di perdere l’interesse anche dello spettatore più attento nel corso delle quasi tre lunghe ore in cui l’intreccio si articola. Le stesse performance attoriali, nonostante i grandi nomi che questo cast può vantare, appaiono eccessivamente temperate; si ha quasi l’impressione i protagonisti si trascinino avanti sullo schermo in direzione univoca e senza alcuna fretta. Qualche eccesso, paradossalmente, non avrebbe potuto che alleggerire l’opera, conferendo maggiore umanità ai suoi personaggi e, nel complesso, riempendo di qualche colore la fredda tavolozza con cui la regista ha adattato il romanzo.

Storia di mia moglie recensione film

Racconto esistenziale dal tono romantico e, talvolta, brillantemente ironico, Storia di mia moglie ambisce ad una riflessione sui ruoli di genere e sugli equilibri di potere, cercando di ricondurre i travagli dell’uomo comune a quelli di un marinaio: il capitano che, pur riuscendo ad orientarsi nell’oceano sconfinato (sulla cui estensione la macchina da presa insiste volentieri), padroneggiandone le correnti e affrontando con presunto rigore gli imprevisti, è, non meno di chiunque altro, esposto ai pericoli della vita; agli incidenti di percorso, alla gelosia e alle vulnerabilità che ogni essere umano è tenuto a sperimentare. Per questo Jakob, quando sua moglie non lo segue nel suo primo viaggio di lavoro a bordo di una nave da crociera (piena di esseri umani e non di merci, come le navi mercantili che il protagonista è solito condurre), vomita nel mezzo dell’incendio che sta mettendo in pericolo i passeggeri e la sua ciurma. 

Rispetto a Corpo e anima, il film precedente della regista ungherese, l’ultima opera di Enyedi, pur rivelando il talento della stessa, manca il bersaglio. Solo poche sequenze riescono veramente a colpire lo spettatore, più come singoli quadri dall’inestimabile valore estetico che in quanto segmenti di una narrazione ambiziosa ma poco loquace, che risulta infine sterile e quasi fine a se stessa. L’autrice, forse, si è preoccupata fin troppo dell’adattare l’omonimo romanzo di Milán Füst (lungo più di 400 pagine) con precisione e rispetto pedissequo, piuttosto che di realizzare un film effettivamente godibile e in grado di portare avanti le proprie istanze con carattere e passione.

Il film è nelle sale dal 14 aprile.

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