Siberia, la recensione: il lungo sogno di Abel Ferrara

Siberia

Parlando dei suoi film newyorchesi e di come siano diversi l’uno dall’altro, Abel Ferrara nel suo Alive in France (2017) parla della grande mela come una città che “non esiste ed è in costante cambiamento”. Una definizione che potrebbe calzare perfettamente con le produzioni del regista statunitense da un decennio a questa parte, in particolar modo in questo suo ultimo film (in attesa di scoprire a Venezia Sportin‘ Life), Siberia (trailer), presentato a febbraio all’ultima edizione del Festival di Berlino. Ciò che non sembra più esistere, o perdere sempre più senso, sembra essere proprio la valenza dei simboli nelle opere di Ferrara, mentre il nuovo mondo di riferimento continua ad essere girato.

Figlio di una lunga gestazione partita dal 2015 come progetto crowdfunding, Siberia, o parte del suo immaginario, era già entrato a far parte di Tommaso, penultimo film di Ferrara presentato a Cannes nel 2019, sotto forma di storyboard che il protagonista del film alter ego del regista (Willem Dafoe) non riusciva a portare avanti. Un’operazione che, oltre ad essere fortemente metacinematografica, segnalava un distacco e, allo stesso tempo, un possibile indizio di una crisi esistenziale e creativa di Ferrara.

Una crisi dovuta a quel “costante cambiamento” nella produzione del regista, che con i suoi ultimi documentari/film di finzione girati in stile guerrilla, dove ogni attimo “rubato” diventa o è già cinema in attesa di essere filmato, non sembra più riuscire a filmare qualcosa di pre-costruito o esclusivamente di finzione. E forse è proprio qui che Siberia potrebbe collocarsi: con tutto l’immaginario che affonda le radici nei sogni, da Jung a Freud passando per Edipo (di forte impatto la sequenza tra Clint e la madre), e l’apparentemente bizzarra giustapposizione di immagini che arricchisce le sequenze (la musica heavy metal e il pesce parlante, giusto per citarne qualcuna).

Il viaggio interiore, e ancora strettamente personale per Ferrara, che si troverà ad affrontare Clint (sempre Willem Dafoe, giunto alla sesta collaborazione con Ferrara) sembra anche negare qualsiasi connessione con la linearità e la circolarità: la peculiarità del montaggio, o anche il suo più grande difetto per molti, è proprio quella di negare una possibile concatenazione degli eventi, e magari di lasciare in mano allo spettatore il compito di riordinare le tappe di questo viaggio.  Il lavoro svolto da Ferrara e dalla sua troupe non a caso prevede un frequente ricorso all’improvvisazione, nonostante ci sia sempre qualche appunto di sceneggiatura. Ed ecco, dunque, quello che resta: la potenza del viaggio, l’esperienza di un eroe che non cerca più redenzione o cambiamento, che ha necessità di osservare sé stesso (Clint più volte si ritroverà ad osservarsi fisicamente da un secondo punto di vista), per ritornare ad essere semplicemente umano.

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