#RomaFF18: Saltburn, la recensione del film di Emerald Fennell

Saltburn

Era il vicino 2021 quando Emerald Fennell – poliedrica attrice, regista e sceneggiatrice – vinceva l’Oscar alla miglior sceneggiatura per Una donna promettente, sua prima esperienza dietro la macchina da presa. Un po’ presto per ergerla in un sol colpo al rango di Autrice, nonostante l’esordio folgorante e i precoci riconoscimenti. Ed eccola quindi tornare all’opera con il secondogenito, Saltburn (trailer), creatura misteriosa e fin qui scalfita da una curiosità da copertina, venuta alla luce al Telluride Film Festival e ora riproposta nella sezione Grand Public della 18° edizione della Festa del Cinema di Roma.

Se di creatura parliamo, potremmo definire Saltburn un mutaforma. Per l’instabilità dei suoi caratteri e degli attanti in gioco, per l’ispirata eccentricità della sua estetica, per il costante riferimento alla doppiezza della superficie, della patina delle apparenze, dei volti e dello schermo, dietro cui si cela l’incrinatura, la corruzione, l’istinto nascosto, il meccanismo. Un po’ la stessa dualità che contrappone i due protagonisti Oliver (Barry Keoghan) e Felix (Jacob Elordi), così apparentemente distanti eppure attratti da una magnetica polarità che alimenta la costante tensione nel film.

Da una parte Felix, miliardario rampollo di una famiglia aristocratica, aitante e popolare, il genere di odierna figura superomista in grado di portarsi a letto le ragazze con uno sguardo. Dall’altra Oliver, studente borsista alquanto taciturno, anonimo nei modi e sgradevole nella presenza, senza amici né una famiglia di cui vantarsi. Casuale terreno d’incontro è Oxford, ambiente classista per eccellenza, dove i contrapposti gradini della scala sociale finiranno per avvicinarsi in un’unica richiesta: Come with me to Saltburn. È l’inizio della vera storia.

Saltburn non è solo un castello, dimora di antichi re ed effige della famiglia Catton, ma è soprattutto un microcosmo autonomo, fatto di regole e abitanti – la famiglia di Felix e i suoi beneficiari. Sono proprio questi ultimi a spiccare in modo vistoso tra le grigia mura di pietra, personaggi eccentrici e caricaturali che mettono in risalto la schizofrenia di una classe sociale chiusa nel proprio mondo imperturbabile.

È tra di loro che si insinua Oliver, il nuovo arrivato, l’estraneo, che altera ben presto le dinamiche del luogo: entrando nelle grazie di Elsbeth (una magnifica Rosamund Pike), madre e moglie tanto amorevole quanto volubile; attirando le attenzioni di Venetia (Alison Oliver), ninfetta e sorella di Felix; muovendosi tra la manifesta ostilità di Farleigh (Archie Madekwe), come lui “ospite a corte”, e la tutto sommato indifferente benevolenza di Sir James (Richard E. Grant), l’appannato capofamiglia. Tra loro fa capolino per breve tempo anche Pamela, una Carey Mulligan in un ruolo piccolo ma decisamente sopra le righe.

Al di sopra di ognuno di loro si erge un unico e mai esplicito principio: tutto deve andare avanti immutato, ogni aspetto della vita a castello ha bisogno di tenersi in movimento anche a costo di chiudere gli occhi davanti alla distruzione. È questa la regola nascosta di Saltburn, è questo il piedistallo che impedisce alla facciata aristocratica di cadere. Ma la forza principale del conflitto sta tutta tra i due protagonisti, o meglio nella torbida infatuazione che Oliver cova per Felix, il quale, d’altra parte, dimostra di avere a cuore l’amico e di legarlo a sé un po’ come giocattolo da usare, forse poiché attratto dalla sua semplicità, o chissà per semplice (ma in fondo egocentrica) bontà d’animo. Chi dei due è la purezza e chi la corruzione che se ne nutre? Chi la forza vitalistica e chi il parassita che vi attinge?

Per tutta la pellicola ritorna l’elemento ricorrente dello specchio, sia come oggetto che come soluzione stilistica di duplicazione dell’immagine nelle tante inquadrature che colgono i personaggi accostati al proprio riflesso. Specchio non come doppio neutrale, dunque, quanto come rifrazione/sdoppiamento e degradazione (un po’ alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, se vogliamo rimanere in chiave british). Allo stesso tempo l’elemento del doppio è accompagnato da un’estetica quasi allucinatoria, che ammanta alcune sequenze di un tono oscillante tra l’incubo e la visione delirante.

Con Saltburn Emerald Fennell torna con una storia forse meno calibrata rispetto al perfetto equilibrio di Una donna promettente, ma non per questo meno affascinante e conturbante, con dialoghi a tratti irresistibili e una narrazione sensualmente accattivante. Barry Keoghan, al suo primo effettivo ruolo da protagonista, dimostra di essere magistrale interprete di un personaggio visceralmente ambiguo, enigmatico e contrastato, volto perfetto per un film che prende per mano lo spettatore e lo trascina in un vortice di perversione e grottesco.

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