#RomaFF18: Anatomie d’une chute, la recensione del film di Justine Triet

Il cadavere di un uomo ritrovato dal figlio e dalla moglie. Tracce di sangue sulla neve, quella che circonda la loro baita isolata tra le Alpi francesi. Nessun altro testimone, di fronte ad una dinamica oscura che la scientifica fatica a decifrare. Si è trattato di un incidente? Difficile da appurare in una indagine, perché l’indagine – per sua ragion d’essere razionale – non ammette casualità. Ed ecco allora le uniche due piste: suicidio o omicidio. Da una parte l’atto perpetrato dall’uomo contro se stesso, dall’altra la violenza della donna – unica indiziata – nei confronti dell’amato. È questa la premessa di Anatomie d’une chute (trailer) della regista francese Justine Triet, Palma d’oro al Festival di Cannes e ora presente nella sezione Best of 2023 della Festa del Cinema di Roma.

Il titolo richiama esplicitamente quello di un altro film, il celebre Anatomia di un omicidio (1959) di Otto Preminger, e in tale accostamento si nasconde una chiara dichiarazione d’intenti. Ancor più che un thriller, infatti, la pellicola si manifesta come un complesso dramma processuale, che partendo dai fatti dell’indagine procederà presto ad una disamina, una dissezione, un’autopsia non di un corpo bensì di un rapporto: quello relazionale e matrimoniale tra Sandra (Sandra Hüller) e il defunto Samuel (Samuel Theis), che finisce per trascinare nel proprio vortice anche il figlio undicenne Daniel (Milo Machado Graner).

Quella al centro di Anatomie d’une chute è la messa a nudo di un rapporto, la relazione tra i due coniugi, così come di un carattere – o meglio dei loro due caratteri contrapposti. Ma, ancor più, è la presa di coscienza dell’impossibilità di conoscere veramente l’identità di una persona, la natura di un rapporto umano e di converso l’identità delle sue parti. Chi è Sandra? Una donna che insiste sulla propria innocenza, contraddetta però dai dettagli che emergono nell’indagine e insincera persino con il suo avvocato, l’amico di vecchia data (c’è stato altro tra i due?) Vincent (Swann Arlaud). Il rapporto con il marito Samuel era da tempo deteriorato, condizionato dall’incidente che anni prima aveva causato la parziale cecità del piccolo Daniel. Qual era la natura del loro matrimonio? Una convivenza conflittuale, tormentata dalla frustrazione e dalla depressione di lui, dall’egoismo e dai tradimenti di lei. Eppure un’unione sottolineata dai tentativi della donna di preservare e difendere in ogni fase il ricordo del marito.

Nell’esporre la sua essenziale ambiguità il film è estremamente verboso, tutto giocato sui dialoghi, che occupano continuamente il campo uditivo dello spettatore (ad eccezione di limitate presenze musicali, sempre motivate diegeticamente). La messa in scena di questo profluvio di parole è quindi scarna, ridotta all’osso, solida, contrapposta a quella delle immagini che invece si pone come ambigua nella propria messa in scena: la regia utilizza spesso la macchina a mano (dando l’impressione di una ripresa in falso documentario, con zoom improvvisi e movimenti bruschi). La debordante presenza dei dialoghi spinge dunque lo spettatore ad ancorarsi alle parole per navigare e rimanere a galla nel racconto della sfaccettata intimità della coppia alla base dell’indagine.

La centralità della parola è sottolineata più volte nel corso del racconto. In prima istanza è al centro del mestiere di Sandra, affermata scrittrice, il cui lavoro è causa dei contrasti con il marito; secondariamente, la donna è straniera (tedesca) e non padroneggia il francese, preferendo esprimersi nella maggior parte del film in inglese. Tale scelta la isola dal contesto in cui si muove ed in cui è chiamata a difendersi tramite l’uso del linguaggio, accentuando il sentimento di incomprensione che serpeggia tra le ragioni della donna e la logica del processo.

Ma la parola è alla base della stessa dinamica dell’indagine: una morte sospetta di cui non esistono testimoni diretti (dunque immagini), la cui comprensione dipende dai resoconti della moglie (accusata di omicidio) e del figlio (emblematicamente cieco). E ancora, guarda caso, l’unica prova esposta in tribunale consiste in una registrazione audio (non video), in cui esplode un violento litigio tra marito e moglie. In tal senso, Anatomie d’une chute si fa metafora di una condizione, come quella mediatica odierna, dove l’individuo è portato ad agganciare la condizione di verità all’immagine (a ciò che vede), brancolando nel buio in assenza di essa (dovendo quindi fare affidamento alla parola, al racconto, alla narrazione).

Ciò che rimane sono domande mai realmente concluse, un’ambiguità che la regista Justine Triet non è interessata a dissipare. E sta forse in questo la forza del film, nel suo distaccarsi dai canoni della narrazione crime contemporanea, lasciando da parte il sensazionalismo e i colpi di scena per costruire un racconto sfaccettato. Poliziesco, legal drama, ritratto psicologico di una donna intricata, dramma matrimoniale e finanche storia di maturazione e crescita di un bambino, Anatomie d’une chute è prima di tutto una parabola sul fare narrazione e sulle pieghe che si nascondono dietro di essa.

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