#RomaFF17: Sanctuary, la recensione del film di Zachary Wigon

Sanctuary

Presentato in concorso nella sezione Progressive Cinema della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Sanctuary di Zachary Wigon è una claustrofobica parabola di potere e sottomissione all’interno di un ristretto spazio di racconto. Il magnate Hal (Christopher Abbott) paga la dominatrice Rebecca (Margaret Qualley) per fargli provare sensazioni perverse che mai devono sfociare nel piacere della penetrazione. Quando però l’uomo pone fine alla “relazione” instauratasi con la donna, Rebecca dischiude un gioco di femminilità pericolosa in cui il gatto manipolatore vuole intrappolare il ricco ed inetto topolino. Comincia così una caccia malata che condurrà i protagonisti, ed in particolare l’uomo, a cadere nelle sfere più oscure della sua psiche.

Zachary Wigon segue con Sanctuary la scia di un certo cinema in cui l’aggressiva rivalsa della donna, a volte anche motivata, è il motore spettrale di sceneggiature che tanto sembrano invitare alla giustizia privata e alla pena di morte. In tal senso, la protagonista di Sanctuary ricorda moltissimo le donne di Attrazione fatale (1987, Adrian Lyne) di Basic Instinct (1992, Paul Verhoeven) e di Una donna promettente (2020, Emerald Fennel). Se da un lato si rimane giustamente scioccati dinanzi alle violenze che la mascolinità è in grado di infliggere alla femminilità, dall’altro è impossibile non restare disturbati dal fuoco vendicatore di certe donne. In queste ultime ringhia un mastino che finirà inevitabilmente per sbranare senza distinzioni il mondo circostante.

Il personaggio di Margaret Qualley è una donna castrante e castratrice che nulla ha da invidiare alle colleghe del 1987, del 1992 e del 2020. Ella è un drago sputafuoco così tanto desideroso di controllare l’uomo che si spinge addirittura ad umiliarlo e sabotarlo sotto ogni punto di vista. L’intero film infatti si fonda sul trasporre il gioco masochista della prima sequenza di dominazione all’interno di tutte le altre scene. Rebecca usa le debolezze umane di Hal per colpirlo al cuore e alla psiche, riducendolo così ad un bambino castigato all’angolo perché rimproverato dalla figura materna. Inoltre, alla fine della prima sequenza di dominazione – apprendiamo che la donna e l’uomo recitano un copione scritto per l’occasione – la sensuale Rebecca sussurra <<non sei nessuno>> all’orecchio di Hal. L’avvilente affermazione della donna ci lascia conoscere cosa bolle veramente nell’uomo.

Egli è quella mascolinità castrata ed inetta mai uscita dal complesso di Edipo, ridotta a recitare un copione per eccitarsi. Più di ogni altra cosa Hal desidera tornare a quel lontano seno materno per uccidere o evitare le ansie e le responsabilità della mostruosa figura paterna. Hal è quella mascolinità diventata tossica che si lascia dominare senza tregua dai suoi fantasmi. Vi è addirittura un momento disturbante (uno tra i tanti) in cui la castratrice protagonista si finge il “padre padrone” di Hal: la scena in questione è una delirante seduta spiritica che trasforma la camera d’albergo nell’oscuro deposito di un cervello logoro. Sanctuary è uno spettacolo volutamente ripugnante e ambiguo, grazie anche alla gelida e al contempo calorosa interpretazione di Margaret Qualley. Il film di Zachary Wigon ci lascia sì senza respiro, ma non aggiunge altro che l’ennesimo giudizio su una mascolinità rimasta purtroppo allo stadio dell’infanzia.

Sanctuary sarà al cinema dal 17 novembre.

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