Quando Hitler rubò il coniglio rosa, la recensione: una lettera d’amore filiale

Quando Hitler rubò il coniglio rosa recensione film Caroline Link

La fiumana della Storia deviò il suo corso quando la frana del nazionalsocialismo s’abbatté su di essa, sicché i flutti dilagarono aprendosi nuove vie, sommergendo paesi, riplasmando paesaggi, mutando improvvisi le sorti d’innumerevoli vite umane disperse e costrette a ricostruire mattone su mattone le proprie esistenze disfatte. Il grande dramma della guerra originò una moltitudine innumerabile di piccoli drammi individuali, così vari e così particolari che l’Arte ancora non cessa di nutrirsene traendo materia per le sue narrazioni.

Su quell’epoca s’è detto davvero molto. Eppure no, ancora non s’è detto tutto. Quando il presente è sciatto e vano e non ha nulla da raccontare, le storie del passato vengono dissepolte e fatte rivivere con solenne venerazione sotto spoglie monumentali. Ma quanto spesso gli autori hanno finito per impantanarsi nel patetismo e nella facile rappresentazione degli scempi avvenuti? Quante risposte sono state date, e di quanta retorica erano colpevoli? Il passato può parlare al presente solo se in esso brilla ciò che in ogni epoca urge di risposte.

Judith Kerr non scrive un romanzo di denuncia. Piuttosto la sua semiautobiografia appare sullo schermo con Quando Hitler rubò il coniglio rosa (trailer) – grazie alla limpida regia di Caroline Link – come un’ode al trionfo delle più pure virtù umane. Non addita la viltà dei carnefici, bensì l’eroismo di quanti senz’armi né divisa hanno preso per mano i figli e con incrollabile fiducia li hanno condotti per mille insidie verso una terra libera e sicura.

Quando Hitler rubò il coniglio rosa recensione film Caroline Link

La piccola Anna Kemper (controfigura letteraria dell’autrice) e il fratello Max devono lasciare Berlino alla vigilia dell’elezione di Hitler. Arthur Kemper (Oliver Masucci), il padre, scrittore antinazista di origini ebree e critico teatrale affermato, ha appreso di un possibile sequesto dei passaporti. E così li porta via, moglie e figli, via dalla Germania, prima in Svizzera, poi a Parigi e infine in Inghilterra. Guardando sempre le cose con indefesso ottimismo, non cessando mai di credere nella vita, nel coraggio e nella forza che lo animano, egli come un Abramo senza Dio guida la propria famiglia verso la terra promessa, avendo sempre una parola buona o un gesto pietoso davanti all’insofferenza dei figli sbalestrati qua e là, ai dubbi della moglie Dorothea (Carla Juri) che in Germania era pianista e compositrice, mentre ora deve occuparsi del misero alloggio e di una mensa sempre più scarna. 《Un tempo la svastica era un simbolo di fortuna. Ora è simbolo di stupidità》, afferma Arthur nella prima sequenza. Non teme il führer, la cui ombra tentacolare pure incombe odiosa sulla fuga dei quattro.

Gli eventi sfilano davanti a noi con passo composto, nell’avvicendarsi dei luoghi e delle persone, dei piccoli dolori, delle gioie, delle insidie che, mettendo alla prova i personaggi, ne svelano il valore. Una narrazione panoramica che descrive adagio, ritrae con pennellate nette e fa a meno dei colori sgargianti e delle esplosioni drammatiche. Dappertutto, dalla sceneggiatura alla messa in scena, trapela l’impronta classica, hollywoodiana della Warner Bros., che al fianco della tedesca Sommerhaus consegna al pubblico un’opera di buona fattura, la cui sapienza sta nell’offrire esempi di virtù senza apparire pedante, anche a costo di sembrare troppo lontana dalla verità, troppo inverosimilmente bella.

Il film sarà disponibile in sala dal 28 Aprile.

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