Peter Von Kant, la recensione: Ozon e l’insostenibile pesantezza della realtà

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Francois Ozon torna a celebrare Fassbinder rielaborando un suo vecchio film, Petra Von Kant, invertendo il punto di vista da quello femminile ad uno maschile. Peter Von Kant (trailer) è il titolo nonché il protagonista di quest’opera. Un famoso regista che si innamora del giovane attore, Amir (Khalil Ben Gharbia) che si è appena affacciato al mondo del cinema, ma ha già assorbito la falsità del mondo dello spettacolo. Il regista fin dal primo momento brama di possedere quel ragazzo, così come possiede il suo assistente Karl (Stefan Crepon) che comanda a bacchetta, con momenti che si avvicinano all’umiliazione, e che il ragazzo ricambia con fedeltà e assoluto mutismo.

Ma solo dopo pochi mesi il ruolo di Peter si inverte, ora è lui ad essere comandato a bacchetta da Amir, schietto approfittatore dell’amore cieco e profondo che Peter (un ottimo Denis Ménochet) ha nei suoi confronti. Ma il cineasta si chiede se davvero Amir ricambi il suo amore, e pur ricevendo chiari segni di insensibilità non riesce a staccarsi dal giovane, forse perché «chiunque nel mondo ha bisogno di consolazione»? Ma quando Amir decide di andarsene definitivamente da casa di Peter, l’uomo si rinchiude in un mondo illusoriamente consolatorio fatto di gin tonic e lacrime amare. La sua casa si è trasformata in un santuario, circondato da dipinti e fotografie che ritraggono il viso delicato di Amir; Peter beve, piange e balla canzoni che accompagnano parole che descrivono al meglio le sensazioni e le delusioni dell’uomo. Dalla pesantezza di questo dolore, non risparmia nemmeno la figlia e sua madre, sputandole addosso tutto il veleno che ha dentro. Come può un uomo capire cos’è l’amore «se uccide tutto ciò che ama»?

Una storia agrodolce che offre vari punti di riflessione: l’umanità e la sua mancanza. Un sentimento che, probabilmente, oggi abbiamo dimenticato diventando tutti dei giovani Amir, piacenti fuori ma meschini dentro. La ricerca di una forma di amore incondizionato, così come lo prova Peter, che prenda il posto di un amore individuale che ha caratterizzato fin dall’inizio Amir; oppure su quanto il sentimento morboso di possesso sia autodistruttivo. Peter lo prova sulla sua pelle quando si scusa con Karl per averlo umiliato. Ma l’assistente, che per tutto il film non ha mai parlato, fa un gesto che vale più di mille parole e abbandona la casa, come se stesse aspettando questo momento da sempre.

Un film che non si allontana troppo dall’alienazione che viviamo oggi con i social, dove ci creiamo la nostra vita illusoria per non guardare in faccia la realtà o per non accettare un passato che ormai è passato. Probabilmente l’unico modo per salvarci è abbandonarsi all’idea che «le cose belle sono quelle che durano di meno». La creazione di un mondo sterile basato su stories, che ci facciano fuggire dall’insostenibile pesantezza della realtà.

Ma dopo ventiquattr’ore, cosa ci rimane?

Dal 18 maggio al cinema.

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