Normale, la recensione: l’abbandono dell’infanzia

Lucie non è una persona normale. Ma in fondo che cos’è la normalità se non un costrutto sociale al quale raramente ci sentiamo di appartenere? Ispirandosi liberamente all’opera di David Greig The Monster in the Hall e attingendo al lavoro svolto in prima persona nelle scuole di alcuni quartieri francesi, caratterizzati da un’alta soglia di povertà, Olivier Babinet in Normale (trailer) racconta una toccante storia famigliare, impegnandosi, però, a non provocare nello spettatore del mero compatimento. Per riuscire nel suo intento il regista crea un buon connubio tra tragico e comico lasciando spazio a un’ulteriore dimensione fantastica che si presenta anche attraverso l’onirico.

La protagonista Lucie (Justine Lacroix) è una quindicenne che vive con il padre William (Benoît Poelvoorde), affetto da sclerosi multipla, in un piccolo paese della Francia. La ragazza si occupa di lui per quanto può, non recriminando con il padre la sua condizione ma ciò nonostante soffrendo dell’unicità della sua situazione. Difatti, al contrario dei coetanei, con cui non ha alcun interazione, la ragazza si rifugia in un mondo del tutto inventato. Tuttavia, anche in questa dimensione fantastica Lucie non è altro che una spettatrice, in attesa che un fattore esterno stravolga la sua esistenza passiva. Una dimensione che la protagonista traspone in quella reale quando, per giustificare le sue mancanze nell’ambiente scolastico, racconta con minuzia di dettagli eventi macabri mai accaduti e di cui lei sarebbe stata testimone oculare.

Gli occhi sono un elemento ricorrente che, in veste di presagio, acquista sempre maggior significato nel corso della narrazione. Ad esempio quando nella scena iniziale Lucie immagina un serial killer giocare a golf – utilizzando i bulbi oculari delle sue vittime – o anche nel sopracitato frangente scolastico quando, rimproverata dalla professoressa per la mancanza di interesse verso la lezione, la ragazza racconta di aver assistito a un suicidio e che l’occhio della vittima le sia rotolato sulla scarpa. Immagini legate a un’estetica orrorifica pop-rétro che si avvicina molto alle atmosfere della famosa serie tv Stranger Things.

Le due dimensioni (quella reale e quella immaginaria) si fondono ancora una volta quando Lucie dovrà venire a patti con l’improvvisa e irreversibile cecità del padre, dovuta ad un peggioramento della malattia. L’unico modo per allontanare dai suoi pensieri la tragica eventualità che l’unico appiglio che le è rimasto, ovvero suo padre, le venga portato via, Lucie si rifugia nell’irrazionalità. Padre e figlia, che vediamo collaborare nella creazione di un piano al limite dell’infantile, si preparano all’arrivo dell’assistente sociale con buffi travestimenti e vari escamotage per nascondere le vere condizioni dell’uomo. Il siparietto, prevedibilmente, dura ben poco e Lucie esplode esternando tutto ciò che aveva represso per anni per poi scappare di casa. Una fuga legata a doppio filo con la necessità, per la prima volta, di toccare il fondo.

Cadere per poi rialzarsi, farsi veramente male per poter ricostruire da zero. Questo è ciò che emerge in un finale che lascia spazio all’accettazione e alla maturità da parte di entrambi i personaggi, complici di aver abbandonato i loro ruoli (a cui non sapevano né potevano aderire in modo funzionale) ed essersi ritrovati in qualità di due persone che si amano. Normale è anche un film esteticamente affascinante che crea ambientazioni interessanti da abitare ed esplorare con lo sguardo. Infine, è rimarchevole la bravura di Justine Lacroix in quanto attrice non professionista che, per mettere in scena il suo personaggio, ha attinto direttamente dalla sua esperienza di vita.

Il film è disponibile al cinema dal 12 ottobre.

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