My Falcon, la recensione: una guida discreta all’intreccio della vita

My Falcon, la recensione del film

È un’opera di una leggerezza ostinata l’ultimo film di Dominik Graf, My Falcon (trailer), trasmesso la prima volta sul canale tedesco Arte il 24 novembre 2023. My Falcon non si lascia cogliere da una lettura unitaria retta da una manciata di quei temi a cui siamo tanto abituati. Questi ultimi, piuttosto che permetterci di afferrare con chiarezza ciò che vediamo, omologano ogni opera attraverso poche semplici formule. Non è, perciò, un film sull’amore che finisce, sull’affetto, sull’umanità, sull’empatia, sulla morte. Sono tutte tematiche, queste, che richiederebbero di essere affrontate in pompa magna, venendo introdotti assegnando loro il giusto peso, facendo affidamento ai cari vecchi topos che hanno fondato una tradizione di quegli argomenti che chiamiamo “seri”.

Eppure, c’è un altro modo per tornare a parlare di queste stesse profondità, di quegli stessi eventi che hanno a che fare con la vita nel senso più alto. Lo si può fare diluendo le fasi più significative della vita degli individui, le esperienze che ci formano o ci spezzano, come la morte, la separazione, gli incontri, all’interno della banalità più quotidiana e silenziosa. In questo troviamo l’ostinazione di My Falcon: nel citare a margine, come se si trattasse di nulla, qualcosa che avviene in ogni momento della giornata –e di fatto avviene sempre in un momento qualunque –, ovvero le fasi fondamentali della formazione di quello che siamo, esperienze che ci lasciano il segno. Seguendo questa linea, lo sviluppo della trama segue rallentamenti e accelerazioni repentine, senza portare mai, se non in pochi, decisivi, punti critici, lo spettatore al massimo della tensione. Perciò, di riflesso, ogni svolta appare del tutto imprevedibile. La rete degli eventi può, da un momento all’altro, metterci davanti a stravolgimenti che deviano il percorso narrativo, ancor prima di accorgercene. In questo modo, il film ci fa presente che le svolte accadono sempre due volte, in un primo momento silenziosamente, lontano dai nostri sguardi, e in un secondo momento, all’improvviso, ricordandoci che è troppo tardi per tornare indietro.

È ciò che avviene a Inga Ehrenberg (Anne Ratte-Polle), la protagonista del film, che esce da un matrimonio finito a causa della distrazione dovuta ai troppi impegni lavorativi e che solo nel corso del film riuscirà maturare una vera e propria consapevolezza della fine della relazione. Inga ci viene presentata a partire dal suo lavoro, è una biologa forense, si dedica al proprio mestiere con cura e distacco. Il modo di affrontare i casi che il suo impiego le sottopone, ovvero senza lasciarsi coinvolgere dalla tragicità degli eventi che li hanno causati, si riflette in una generale freddezza nei rapporti con gli altri. Il film prende avvio con un parallelismo che definirà il carattere della protagonista fino alla – almeno parziale – conciliazione finale. Da un lato la solerzia nel lavoro, il successo, la dedizione alla ricerca scientifica dei fatti, dall’altra i rapporti personali e umani che continuamente si sfaldano, facendo piombare Inga in un sempre più pesante isolamento e spingendola alla totale dissociazione.

my falcon, la recensione del film

Il falco diventa, all’interno dell’intreccio narrativo, il filo che, una volta teso, riconfigura tutti i rapporti che caratterizzano la vita della protagonista. All’inizio del film Inga decide di addestrare un falco – la passione per i falchi era ciò che condivideva con l’ex marito – trattandolo come una figura totem, l’unica con cui fa emergere la propria fragilità, confidandosi e ricercando conferme, il solo interesse che veramente la tiene lontana dal suo lavoro. Il sogno di esser riuscita a ricostruire una quotidianità e un legame con un altro essere vivente si infrange quando il falco fugge, costringendo Inga a fare i conti con la sua solitudine e con il suo morboso attaccamento al ricordo del marito. È in questo secondo abbandono che Inga realizza che l’attaccamento con l’animale non era che il riflesso della mancata realizzazione della fine del suo matrimonio. Decide dunque di liberarsi, insieme all’ormai inutile attrezzatura per l’addestramento del falco, anche della foto del marito che, come un monito per segnalare la possibilità di un ritorno, si trovava ancora esposta nel suo salotto.

Questo è solo uno, il principale direi, dei percorsi narrativi che il film restituisce, intrecciati l’uno nell’altro. Mentre Inga si affeziona al falco, il litigio con il padre (Jörg Gudzuhn) la porta a scoprire aspetti del suo passato che non credeva possibili. L’arrivo di una nuova figura (Olga von Luckwald) nella sua vita, una presunta figlia del suo stesso padre, la porterà a riflettere sull’importanza della spontaneità dei rapporti e il bisogno di stare con gli altri. Nel frattempo, dovrà affrontare il caso di un’insolita morte per annegamento che si sospetta essere un omicidio, e provare a identificare l’antenato di una famiglia in cui tutti hanno le mani “insolitamente grandi”.

Nella conclusione Inga si lascerà finalmente andare ad una considerazione sulla sua vita. Se il Novecento è stata l’epoca della macchina, oggi ogni cosa ci appare strutturata come una rete; abbiamo reti nel cervello e i funghi comunicano tra loro attraverso una rete connettiva sotterranea. In questa rete ritroviamo il senso delle tribolazioni, delle svolte, degli addii e dei cambiamenti che si affastellano in questo racconto, una fotografia modesta dell’imprevedibilità dei cambiamenti e una guida per affrontare la perdita.

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