La caccia, la recensione: il ritratto di quattro fratelli e un rimorso

Quando si studia o si lavora nel cinema una delle cose più difficili da fare è riassumere un film. Quelli buoni, insegnano, si possono raccontare in una riga. Seguendo questa regola La caccia (trailer), il nuovo lungometraggio di Marco Bocci, ha un grandissimo potenziale. La sua storia, infatti, rientra perfettamente in una singola frase: quattro fratelli con problemi di denaro organizzano una battuta di caccia per decidere chi dovrà tenersi l’intera eredità del defunto padre. Quanta azione in queste parole, quanto dramma e quante promesse. Come dicono gli insegnanti, però, “l’alunno è bravo ma non si applica”.

Partiamo dall’inizio: La caccia si apre con un lungo piano sequenza agitato e confuso, una soggettiva in un bosco con in sottofondo una voce di donna che racconta una fiaba dei fratelli Grimm, la quale accompagnerà lo spettatore lungo tutta la durata del film. Chi c’è dietro la soggettiva? Non si sa, forse un animale? E la voce? Nemmeno, donna non pervenuta.

Finita la soggettiva conosciamo i protagonisti, i quattro fratelli. Luca (Filippo Nigro) è un venditore di automobili di lusso, che si rivela subito ambizioso, troppo per le sue tasche e, infatti, si scoprirà avere debiti con signori poco raccomandabili. Silvia (Laura Chiatti) è l’unica sorella, di lei si sa solo che in passato aveva problemi di droga e che vuole avere il figlio di una prostituta. Mattia (Pietro Sermonti), il creativo del gruppo, l’unico che pare aver raggiunto i suoi obiettivi, con una buona carriera da pittore e una ragazzina come compagna. Infine Giorgio (Paolo Pierobon), un impiegato della classe media con la figlia che vuole frequentare una scuola troppo costosa e la moglie che prosciuga tutti i risparmi.

L’evento che li riunisce è la morte del padre, un uomo duro che ha segnato le loro infanzie con comportamenti quasi violenti e dure battute di caccia. Evento che, però, per l’intera ora e mezza successiva non ha conseguenze sulle vite dei protagonisti. La famosa caccia, infatti, arriva solo nella ultima mezz’ora di film. Il conflitto centrale viene perennemente rimandato per far vedere al pubblico i personaggi che, passivi, si lasciano investire dalla vita, dai loro fantasmi interiori e del passato. Nessuno prende decisioni, come una pallina del flipper ogni fratello subisce scosse e traumi che ingoiano e reprimono.

Al pari dei personaggi anche il racconto e la regia sembrano passivi in certi momenti. L’ambientazione è completamente assente. Non si sa in quale luogo dell’Italia ci si trovi e le stesse vite dei protagonisti hanno dei fastidiosissimi buchi di trama. Perché la sorella vuole il figlio di una prostituta? Perché il venditore di auto ha debiti con la mafia? Non si sa.

La regia, inoltre, sebbene si tenga sempre su uno stile distorto e thriller cambia di volta in volta tecniche di narrazione e ripresa. Talvolta gioca coi salti temporali, facendo credere che certi eventi siano il presente quando in realtà sono passati. Altre volte posiziona la telecamera in posizioni ambigue, come sopra un carrello porta lettere, altre ancora gioca con la messa a fuoco. Tanti stili, tante tecniche e troppe variazioni.

Insomma, La caccia non è un brutto film ma non è nemmeno una storia che ti spinge a rivederla e riviverla. Manca l’azione, il conflitto, lo scontro; manca tutto quello che le premesse iniziali promettevano. Infatti, questo film è più un lungo ritratto di quattro vite traumatizzate e piene di sensi di colpa che vagano come ombre in una città che li respinge. In poche parole La caccia è come un placido lago piuttosto che un mare tempestoso ricco di misteri e avventure.

La caccia è al cinema dall’11 maggio.

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