Il ritorno di Casanova, la recensione: il peso delle aspettative

Leo Bernardi (Toni Servillo) è un regista 63enne che deve chiudere al montaggio il film che ha appena terminato, Il ritorno di Casanova (trailer). È in difficoltà, svogliato, soffre. Allo stesso tempo soffre il Casanova cinquantenne del suo film (Fabrizio Bentivoglio), costretto ad abbandonare Venezia per non finire in prigione.
Gabriele Salvatores propone allo spettatore il parallelismo tra i due personaggi e lo fa in maniera plateale, senza lasciare spazio all’immaginazione.

Entrambi hanno una passione incontrollabile: Casanova la seduzione e Leo il cinema. I due entrano in crisi quando realizzano di faticare per fare qualcosa che fino a qualche tempo prima era tanto semplice da essere inevitabile. Ad aggravare ulteriormente la situazione ci sono i giovani che solamente con la loro presenza li fanno sentire minacciati.

È quindi un film che affronta il passaggio dall’età adulta alla vecchiaia e questa duplice linea temporale lo protegge dai commenti più semplicistici sull’incapacità contemporanea di accettare il tempo che passa. Salvatores, con la parte ambientata nel Settecento, costringe a soffermarsi sul reale sentimento che abita i due personaggi, ovvero la paura di morire, trasversale agli uomini di tutte le epoche.

I due protagonisti hanno sempre lasciato agli altri il compito di definirli, ma nel momento in cui l’età avanza e non riescono più né a sedurre né a partorire capolavori, si guardano allo specchio e non sanno più chi sono. Vivono il dramma di avere una fama che li precede, cosa che li carica del peso delle aspettative di tutti, comprese le proprie. Eccellere comporta di doverlo fare sempre.

La luce della candela sorretta da Casanova, nella prima sequenza del film, è accostata alla carrellata di premi che Leo ha vinto nel corso della carriera. I premi quindi sono un po’ come candele: prima fanno luce – nel mentre la cera colando scotta le mani – e dopo si spengono. È quindi questa scena che tramuta in immagine la sensazione di oppressione che Leo Bernardi (e forse Salvatores stesso) sente e che lo inquieta.

Salvatores mette in scena un cineasta affermato, pluripremiato, che si sente alla fine della propria carriera, ed è difficile resistere alla tentazione di cercare i tratti comuni tra i due. Il film si inserisce nel filone contemporaneo di registi che si interrogano e si raccontano, in questo caso in maniera metacinematografica, a tratti ombelicale. Si sofferma molto sul lato delle aspettative che gli altri hanno e di come sia semplice deluderle: sembra quasi una profezia che si autoavvera.

L’operazione non convince totalmente, un po’ per le aspettative che si hanno sul premio Oscar, ma soprattutto perché è un film troppo esplicito nelle sue intenzioni. Non concede allo spettatore il privilegio di immaginare, di ricostruire perché viene già detto tutto. Uscendo dalla sala si ha la sensazione di aver visto un film ben girato, ben recitato e con le altre maestranze in splendida forma, ma manca qualcosa. Manca il piglio, la scintilla che ti fa ripensare al film anche a distanza di giorni. È un lavoro che purtroppo, come la gondola che all’alba riporta Casanova nella sua amata Venezia, lascia una breve scia dietro di sé per poi disperdersi nella laguna.

Il ritorno di Casanova è dal 30 marzo al cinema.

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