Bridgerton, la recensione della prima stagione su Netflix

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Sull’account Instagram di Netflix Italia, sotto i post precedenti il 31 Dicembre 2020, se si scorrono i commenti se ne potrà trovare almeno uno che esorta il colosso dello streaming a non togliere dal catalogo Gossip Girl. E se la serie americana sembra esser sopravvissuta al capodanno, i suoi fan avrebbero comunque trovato pane per i loro denti qualora non fosse successo, perché ad aspettarli c’era Bridgerton (trailer), un incrocio tra le avventure di Serena Wandervuzen ed Elizabeth Bennet. La serie prodotta da Shonda Rhimes (creatrice di Grey’s Anathomy) è infatti il tentativo di svecchiare un genere che ha visto negli ultimi anni un ritorno sugli schermi sempre più difficile da ignorare. Downton Abbey, La Favorita, Emma e Piccole Donne sono soltanto alcuni dei titoli protagonisti di questo revival, ma tra tutti è proprio con il film di Greta Gerwig che Bridgerton ha vari punti di contatto e per questo pesano i rischi che la serie non sa correre.

Implicazione economica del matrimonio e soprattutto scrittura come mezzo per emanciparsi sono infatti i temi cardine di questa prima stagione, che coincide con la “social season”, la stagione sociale londinese, che vede il debutto in società della protagonista Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor). A raccontarne le vicende al pubblico una narratrice d’eccezione, l’altra protagonista, invisibile ma non certo silenziosa: Lady Whistledown, che con l’anonimato ed una penna affilata sconvolge lo status quo dell’aristocrazia, arrivando ad infastidire persino la regina. Ma purtroppo se l’identità della scrittrice è inafferrabile per i personaggi della serie, non si può dire altrettanto per chi la serie la guarda, dal momento che il più grande mistero di Bridgerton è facilmente intuibile dopo appena qualche puntata.

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Ma sono ben altri i problemi di una serie che ce la mette tutta per essere più pop di altri prodotti simili senza però riuscirci completamente, restando invece ancorata ad un tipo di immaginario troppo stantio per ciò che vorrebbe fare e risultando quindi sospesa in un limbo: né classica né audace. Una scelta tra tutte è emblema di quest’anima a metà: le cover di famose canzoni contemporanee (da Taylor Swift a Billie Eilish) suonate come fossero canzoni d’epoca. Quello che sarebbe potuto essere un dettaglio interessante, finisce per diventare il riassunto di una serie che arriva fino al limitare del burrone, ma non spicca il volo, per paura di cadere. Non stupisce quindi la resa dei flashback, verrebbe da dire, quasi vetusta per un prodotto del 2020, ma soprattutto delude senza sorprendere che alcuni tra i punti più interessanti vengano solamente sfiorati, o peggio, depotenziati dalle implicazioni.

Se in prima istanza Bridgerton è stata infatti accostata a Piccole Donne è proprio perché accenna a riprendere alcuni dei discorsi già affrontati brillantemente da Gerwig, basti pensare al monologo di Florence Pugh sul matrimonio come scelta economica o a quello di Emma Watson sulla volontà di mettere su famiglia, momenti in grado di offrire due punti di vista opposti sul medesimo argomento, dando spazio e legittimità a entrambi. Sebbene vi sia un simile intento in Bridgerton, quest’ultima fallisce nel voler racchiudere le due prospettive nella protagonista Daphe, che risulta quindi non un personaggio dalle mille sfaccettature, ma soltanto terribilmente contraddittorio. E anche quando le carte in regola ce le avrebbe tutte, ecco che Bridgerton non sa osare e fa un passo indietro: che le scene di sesso siano per la maggior parte incentrate sul piacere femminile è oltremodo apprezzabile, se non fosse però che la finalità di quel piacere è sempre e comunque la formazione della famiglia tradizionale. Perché, in fin dei conti, com’è che si dice?, auguri e figli maschi, letteralmente.

Eppure c’è qualcosa che rende Bridgerton degna di nota: la scelta di un cast inclusivo nonostante la cornice storica all’interno della quale si svolge la serie. Anzi, è proprio quella stessa cornice storica a rendere la scelta del cast una questione politica, a farne una lampante dichiarazione d’intenti e quasi uno schiaffo morale a tutte le altre produzioni. Perché se persino in una serie in costume la regina Carlotta può essere interpretata da un’attrice nera (nello specifico Golda Rosheuvel) gli altri che scusa hanno?

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