Pantafa, la recensione: un incubo tutto italiano

Pantafa, la recensione: un incubo tutto italiano

Vi è mai capitato di svegliarvi all’improvviso nel cuore della notte e di ritrovarvi con gli occhi sbarrati, incapaci di muovere un singolo muscolo, con addosso un’asfissiante sensazione di panico e la percezione di qualcosa (o qualcuno) sul petto che vi opprime? Cosa potrebbe esserci di più terribile? Forse solo sapere che quel peso che vi toglie il respiro e vi soffoca altro non è che la Pantafa.

Per il suo secondo lungometraggio, Emanuele Scaringi decide di attingere dalla tradizione folkloristica del nostro paese, un recipiente vastissimo e ricchissimo che aveva già ispirato film come A Classic Horror Story di Roberto de Feo e Paolo Strippoli. Sulla stessa scia, Pantafa (trailer) ripropone sullo schermo i topoi classici del genere horror rielaborandoli però in chiave italiana. Un’operazione che, con nostra grande gioia, sembra stia diventando sempre più frequente negli ultimi anni.

Marta (Kasia Smutniak) e sua figlia Nina (Greta Santi) si sono appena trasferite a Malanotte, un paesino sperduto tra le montagne per sfuggire alla frenesia della città. Nina soffre di paralisi ipnagogiche, un disturbo che le causa allucinazioni vivide e spaventose che iniziano a peggiorare già dalla prima notte nella nuova casa. La bambina fa incubi ricorrenti su una figura spettrale che le si siede sul petto, la immobilizza e le ruba il respiro. Si tratta proprio della Pantafa come le spiegheranno successivamente Orsa e gli abitanti del paese. La leggenda della Pantafa (o Pantafica) infatti trae origine dal fenomeno della paralisi del sonno che la tradizione popolare, come spesso avviene, ha personificato attribuendogli sembianze umane, in questo caso quelle di una vecchia strega con lunghi capelli neri.  

Il rapporto tra madre e figlia è il perno centrale attorno a cui si sviluppa l’intera pellicola. La stessa leggenda della Pantafa viene rielaborata da Scaringi come la storia di una madre che ha perso i suoi figli e che quindi torna per portare con sé i bambini durante il sonno. Le sue sembianze ricalcano le rappresentazioni ormai quasi canoniche delle madri nei film horror a partire da The Ring fino a La Madre. Tuttavia il problema principale del film è proprio da ricercarsi nello sviluppo dei due personaggi principali e dei rispettivi archi narrativi, troppo superficiali e poco approfonditi, specialmente per quanto riguarda quello di Marta. Per la maggior parte del film quest’ultima appare come una madre apprensiva che ha cuore solo il benessere della figlia. Tuttavia in alcuni momenti lascia trapelare dei tratti quasi abusivi, arrivando in qualche modo a coincidere con la stessa Pantafa nell’ultima sequenza e lasciando allo spettatore la sensazione di non aver compreso davvero nulla sul personaggio.

Ciò in cui il film di Scaringi riesce, invece, è la creazione di un’atmosfera decisamente suggestiva. I paesaggi di montagna avvolti nella nebbia sono una metafora quanto più calzante dell’isolamento di madre e figlia. Marta e Nina vengono lentamente assorbite dalla natura che le circonda, quasi contagiate (come nel caso di Nina che a mano a mano inizia a comportarsi come la vecchia vicina di casa).

Scaringi dà vita a personaggi grotteschi che incutono quasi più timore della stessa entità soprannaturale. L’orrore di Pantafa, infatti, non sta tanto nella strega, che si svela quasi subito e che si rifà – come già detto – ad un’estetica piuttosto comune, ma piuttosto nella rappresentazione di una realtà ormai diventata talmente distante da terrorizzarci con le sue tradizioni arcaiche e incomprensibili. L’orrore è da ricercarsi negli occhi spenti di Orsa e nelle rughe profonde del suo viso o ancora nell’immagine tetra di un paese abitato ormai solo da vecchi e in cui i bambini non sono altro che ombre. Un’immagine che oggi in Italia ci incute timore come mai prima.

Il film è al cinema dal 30 marzo.

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