House of Gucci, la recensione: il nuovo e fallimentare film di Ridley Scott

House of Gucci recensione film

Una sigaretta, un caffè al bar, vestiti eleganti e un portico. Queste sono le prime italianissime immagini che definiscono lo stile di una delle famiglie più ricche e potenti dell’ultimo secolo. I Gucci. House of Gucci (qui il trailer italiano) è il nuovo film di Ridley Scott. Fresco 83enne, il regista inglese non ha nessuna voglia di godersi la pensione, tanto da regalarci ben due film, questo e The Last Duel, nel giro di un paio di mesi.

Il film parla della storia della famiglia Gucci partendo dal periodo in cui Patrizia Reggiani (Lady Gaga) diventa parte della famiglia sposando Maurizio (Adam Driver), nipote del fondatore della casa di moda. Da quell’incontro, niente sarà come prima per i Gucci. Tradimento, gelosia, passione, ricchezza sono gli elementi chiave di questa storia che promette tanto. Ci sono tutti i presupposti per pensare che questo sarà un gran film, un altro capolavoro firmato da Ridley Scott, ma non è così. House of Gucci fa parte di quella categoria in cui il trailer è meglio del film stesso.

Il film non funziona proprio per questo motivo: il materiale di partenza è succoso ma non è stato gestito al meglio. A partire dal montaggio, che è freddo, non dà il tempo al pubblico di entrare in sintonia coi personaggi e quindi di capire le motivazioni che li muovono. Una delle tante pecche del film è il non riuscire a far immergere il pubblico negli anni ’70, facendo una brutta figura se paragonato a film come Inherent Vice (P.T. Anderson, 2014) e American Hustle (D. O. Russel, 2013). Uno dei simboli di quegli anni è la musica. Proprio questa, in House of Gucci, si divide tra le canzoni spensierate della disco dance e le arie celebri dell’opera italiana. La scelta dei brani tratti, tra le altre opere, da La Traviata e Il Barbiere di Siviglia non è fuori luogo, perchè la storia di cui stiamo parlando è grande, è il racconto che ne fa Scott a non esserne all’altezza.

Una narrazione spezzettata, con scene troppo brevi per poterle apprezzare davvero. Il regista non permette al mondo che lui stesso sta raccontando di esprimere tutto il suo potenziale. Una tendenza che si è andata consolidando coi suoi ultimi film, lontana dal ritmo di Blade Runner che per molti sarà anche lento, ma, facciamoci caso, chi si ricorda di Rick Deckard? E chi di David 8, protagonista di Prometheus? Appunto.

Quindi, perchè uno spettatore dovrebbe andare a vedere un film su una storia che conosce già se non viene neanche raccontata col minimo coinvolgimento emotivo? Tanto vale recuperare i telegiornali dell’epoca. Probabilmente, com’è giusto che sia, il motivo per cui la maggior parte del pubblico andrà a vedere il film è la presenza delle star più grandi del momento. Da qualche anno a questa parte ogni film hollywoodiano che si rispetti ha un intero cast di fama mondiale e, spesso, ci si ritrova con un’arma a doppio taglio.

Infatti questa mossa potrebbe assicurare un buon successo al film, ma potrebbe anche portare gli attori a cercare di prevalere uno sull’altro e a non recitare sulla stessa frequenza d’onda. In molte scene, anche quelle corali, si ha quasi l’impressione che i membri del cast stiano interpretando monologhi. Unamancanza di “gioco di squadra” che potrebbe anche essere data dalla difficoltà e dai diversi modi in cui hanno cercato di riprodurre, con una scelta pittoresca, l’accento italiano nella parlata inglese, tra chi ci è riuscito e chi, come (dispiace dirlo) Adam Driver, non ci ha neanche provato. Tra i tanti grandi attori, il migliore è Jared Leto. Non solo propone l’accento più simile, ma riesce anche a fare propri i tempi e le pause tipiche della lingua italiana. Unica nota davvero positiva in un film sconnesso, che si limita a riportare un fatto, senza darne una visione e senza approfondire il dramma che questi personaggi hanno vissuto.

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