Powidoki – Il Ritratto Negato (qui il trailer) veniva presentato per la prima volta nel 2016 al Toronto Film Festival, poche settimane prima che Andrzej Wajda morisse. L’ultimo lavoro del regista polacco, che arriva nelle sale qui in Italia a partire dall’11 luglio grazie a Movies Inspired, assume quindi la forma di un lascito che chiude una carriera di oltre mezzo secolo. Lo fa in maniera fortemente intima, portando sullo schermo la figura del pittore avanguardista Władysław Strzemiński (Bogusław Linda), che in non pochi punti sembra sovrapporsi con l’ombra dello stesso Wajda. Siamo nella Polonia del secondo dopoguerra, un paese dove le lacerazioni sociali di una popolazione fiera, ma compressa da decenni tra gli interessi geopolitici di realtà più grandi ed arroganti, vengono marginate negli occhi lividi delle persone. L’impero sovietico, dominus scolpito nei tratti dell’uomo d’acciaio Stalin, liberatore solo pochi anni prima, si è tramutato nell’ennesimo potere dal quale smarcarsi, ideologicamente prima che fisicamente.
Chi non lavora, chi non contribuisce ad alimentare la famelica macchina rossa, non mangia. Tutto è al servizio della titanica struttura sovietica, il cui fine ultimo si rivela la sua capacità di auto-sostentarsi. L’arte non fa eccezione, deve divenire un esercizio incanalato nella promulgazione di quella visione univoca che vede l’individuo esistere in nome della collettività, particella di un quid più ampio. A subire lo scacco maggiore sono quindi gli artisti come Strzemiński, le cui uniche scelte sono quelle di essere assoggettati al potere o di finire tacciati di opposizione al regime. Quando gli viene chiesto “Da che parte stai?”, Strzemiński risponde “Dalla mia”. Per questo viene privato del suo lavoro, delle sue opere e delle sue idee. Le sue menomazioni fisiche, la cui natura è custodita gelosamente, si riconfigurano quindi come una coatta lobotomia ideologica che gli asporta, pezzo per pezzo, la sua personale visione sul reale e sull’arte. Non c’è più spazio per lo studio delle forme, ritenute vacue e non consone alla sistematicità di un ordine utilitaristico sul quale l’Unione Sovietica fonda il suo credo.
Affamato, ammalato e con il grigio che avanza a contaminare anche la “Sala Neoplastica” dove ancora poche scaglie di colore sono custodite, Strzemiński è nel suo appartamento che tenta di captare, vanamente, gli ultimi impulsi per la sua “teoria della visione”. E’ proprio qui, infatti, che in una delle prime scene Wajda ci mostra lo scarto, tutto metacinematografico, del passaggio dalla pura arte alla mera “riproducibilità tecnica”: un enorme striscione rosso viene srotolato sul palazzo dove abita il pittore, trasformando, di riflesso, la sua stanza da ricettacolo del reale ad una camera oscura. L’artista tenta di squarciare il velo fatto calare sul suo occhio, ma la metamorfosi è completa. Accade così che le uniche “immagini residue” siano quelle dei corpi incapaci di relazionarsi al di fuori della dimensione artistica che ormai è svanita, mescolati nell’inquadratura come macchie indistinte.
“Una volta il cinema ti piaceva” afferma Nika (Bronisława Zamachowska), figlia di Strzemiński, uscendo anticipatamente da una proiezione che il vecchio artista non è più in grado di apprezzare. E’ Wajda che sembra parlare per un’ultima volta a sé stesso, specchiato nello sguardo stanco di quel corpo tranciato e cosciente di essere fatalmente fuori posto in una realtà dove non vede più arte ma solo glaciale immagine.