Fritz Lang esordisce nell’industria hollywoodiana con Furia (Fury, 1936), una pellicola tormentata ed europea nell’indagine psicologica dell’io e delle masse, che esplora le falle del sistema giuridico americano tramite il tema del linciaggio, al tempo tollerato dalla società d’oltreoceano. Ipocrisia, stupidità e crudeltà sono fuse nel lungometraggio del regista di Metropolis (1927), la cui immensità è l’essersi adattato al mutamento del linguaggio cinematografico lungo tutto il XX secolo. Dall’era d’oro del cinema espressionista tedesco Lang sbarca nell’America delle innovative risorse tecnologiche e, entrato nello studio-system, diventa uno dei punti di riferimento per il cinema mondiale: nessun regista aveva coscienza del mezzo cinematografico quanto lui.
Furia è diretto e rifugge a qualsiasi raziocinio nella sua brutalità. La struttura drammaturgica prevede una divisione netta in due parti. La prima parte sfocia nell’isteria e nella ferocia della folla, mentre la seconda, dominata dall’odio e dal risentimento, è guidata dal desiderio di vendetta di Joe, che punta ad ottenere la condanna a morte dei suoi aggressori. La vittima diventa carnefice in anonimato, annientando la sua identità. La “furia” è il leitmotiv, ed è la furia della folla, di Joe nonché del pubblico che si sente toccato dal protagonista ora sopraffatto da una sconclusionata volontà di ritorsione.
L’arrivo in America
Lang lascia la Germania nel 1933, non appena Joseph Goebbels, valutate le sue abilità di cinematografo, gli offre la guida dell’UFA – non senza aver prima bannato i suoi lavori più recenti, reputati anti-nazisti. Arrivato in America nel 1934, il regista si tuffa nella conoscenza del nuovo continente attraverso lo studio dell’americano medio grazie alla lettura dei giornali nonché dei fumetti in inglese, che gli permettono di percepire l’umorismo americano, favorendogli un’opinione palpabile del Nuovo Mondo. Fondamentale, a riguardo della genesi di Furia e non solo, è la testimonianza di Lang sul suo approccio all’attualità: «[…] Conservavo l’abitudine che avevo in Europa […] di collezionare ritagli di giornali […]. Scoprimmo che a San José, in California, c’era stato un linciaggio pochi anni prima che facessi il film [Furia, n.d.r.]».
Il linciaggio cui si riferisce Lang risale al 27 novembre 1933 ed è la vicenda di un uomo innocente che viene massacrato da un’intera città. Pochi anni dopo il regista, costretto a girare una pellicola in vista dell’imminente scadenza del suo contratto con la Metro-Goldwyn-Mayer, riceve dallo sceneggiatore Norman Krasna un breve script intitolato Mob Rule (Il potere della folla) – tuttavia, la testata del «San Francisco Chronicle» di quel 27 novembre riporta “Fury would not down”, probabilmente d’effettiva ispirazione per il titolo definitivo della pellicola.
Nonostante la critica abbia obiettato un cast interamente caucasico per affrontare una problematica – il linciaggio – che affliggeva soprattutto le comunità afro-americane, si può pensare, oggi, che l’assenza di una componente razziale aiuti ad universalizzare il problema, poiché nessuno è immune ad alcun tipo di potere irrazionale: quello che in Germania portava l’etichetta di “nazismo” può sorgere ovunque, persino nella terra che proclamava giustizia e democrazia. Lang non fa altro che traslare e riposizionare una tale insidia nell’America degli anni Trenta.
La massa: la mob mentality
Ma cosa si intende per “linciaggio”? Treccani lo definisce un’«esecuzione sommaria, operata di proprio moto da parte di privati cittadini, senza previa condanna giudiziaria, di delinquenti colti in flagrante o comunque di individui ritenuti, secondo la comune opinione, colpevoli». Furia, di fatto, non è un film sul linciaggio, piuttosto uno studio sulla massa e sulle pulsioni animalesche dell’uomo quand’è in gruppo tramite il linciaggio. Lang riflette sulla potenziale brutalità della folla in quanto luogo in cui l’individuo si sgrava delle proprie responsabilità: l’uomo perde la propria coscienza, diventando massa.
Di quella che viene chiamata mob mentality parla Sigmund Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), uno studio nato nel contesto delle gravi crisi economiche che favorirono l’insorgere delle lotte operaie. Freud dimostra che i fenomeni che regolano la vita di gruppo non sono poi così lontani dalle scoperte psicoanalitiche relative ai processi individuali.
Secondo voi, cosa spinge la gente a fare cose come rapire un bambino? Soltanto la pazzia, dico io… Te lo dico io cos’è. La gente a volte ha strani impulsi. Se riesci a resistere, sei sano … altrimenti, la tua fine è la galera oppure il manicomio…
In Furia, la succitata battuta, pronunciata da un barbiere, fa scattare la scintilla per il mormorio attorno a Joe: dalla bottega prende il la il vociferare sulla sua colpa e il segreto, arricchito di volta in volta di particolari fantasiosi, alimenta una violenza repressa. Quello che all’inizio appariva come un ingenuo pettegolezzo si condensa in una irrefrenabile volontà di “giustizia” collettiva, ovvero quello che Theodor W. Adorno descrive come “impulso mimetico”, cioè la ricerca di soddisfazione in uno spettacolo di violenza mascherato da un’ipocrita integrità.
L’io: la trasformazione di Joe
Dunque, la violenza distrugge l’equilibrio sociale. Ma, in egual modo, qualsiasi mania è pericolosa nell’individuo. L’ossessione per la vendetta di Joe lo rivela un naïve che inizialmente credeva alle relazioni sociali e che ora si basa sulla millenaria legge del taglione. Ma se il lato razionale ci spinge a pensare che nessuno dovrebbe farsi legge da solo, quello emotivo ci coinvolge al punto da essere noi stessi a chiedere giustizia per un brav’uomo qual è Joe. È Joseph L. Mankiewicz, produttore e poi regista, che vuole che il protagonista sia un uomo ordinario in una situazione straordinaria, dacché Furia è uno specchio per il pubblico: quello che accade al di là dello schermo potrebbe accadere al di qua di esso. Lang mette in evidenza l’universalità di una condizione esistenziale e psicologica: ogni uomo, anche il più mite, può trasformarsi in un assassino, nascondendo una innata malvagità che aspetta solo un pretesto per manifestarsi.
Lotte H. Einser, nella monografia dedicata al cinema di Lang, descrive così la trasformazione del protagonista: «Il buio che Joe esige, perché la luce fa male ai suoi occhi irritati dal fumo e perché non vuole essere visto dal mondo esterno, corrisponde al suo nuovo atteggiamento […]. Le fiamme nelle quali lo si è visto avvolto hanno distrutto tutto il suo amore e la sua fiducia negli uomini».[1] Quando ricompare a casa dei suoi fratelli dopo l’attacco, Joe appare con le sembianze distorte del suo alter ego. Non è nuovo che il cinema di Lang si interessi al disturbo dissociativo dell’identità, ma in questo caso l’alienazione è esternata: Joe racconta di come abbia speso un’intera giornata al cinematografo guardando a ripetizione le scene del linciaggio e dell’incendio, ma senza provare alcun dolore, «perché non si può far del male a un uomo morto».
Eppure, Joe si tradisce, rinnegando la sua rabbia a scapito di salvare i cittadini che intendevano ucciderlo. La redenzione può essere ottenuta solo attraverso la riscatto personale: l’eroe chiede il perdono («Che Dio mi aiuti») e nel discorso di chiusura esprime la morte del suo ideale.
Sono assassini. Anche se la legge dice il contrario perché io sono ancora vivo. Ma non per merito loro. E la legge ignora che un sacco di cose erano molto importanti per me – cose stupide forse – come la fiducia nella giustizia, la convinzione che gli uomini fossero civili, e un senso d’orgoglio per il mio paese che mi sembrava diverso da tutti gli altri – la legge non sa che quelle cose sono state bruciate in me quella notte.
È anche una dichiarazione personale di Lang di disamoramento dalla Germania? Forse.
Un noir sulla legge?
Lang utilizza un linguaggio estetico pregno di valore simbolico che richiama più che vagamente al cinema muto tedesco, sostenuto, qui, dal gioco di chiaroscuro della fotografia di Joseph Ruttenberg e dalle angolazioni distorte della macchina da presa. L’ombra decisamente allungata delle sbarre, le mostruose deformità dei volti ghignanti alla visione delle fiamme, la donna che tiene in braccio suo figlio per non privarlo dello spettacolo, l’associazione caricaturale dei cittadini pettegoli alle galline nella scena del passaparola, accompagnata da una musica concitata e buffa: tutto si mescola all’atmosfera cupa e cruda delle città fittizie e asettiche dei potenti film degli anni Trenta – non a caso, Lang ascrive Furia al “crime pictures”.
Tematicamente e cinematograficamente, Furia è un film espressionista, ma il conflitto psicologico e l’ambiguità morale, già presenti nel primo lavoro sonoro di Lang, M (1931) – che molti definiscono l’apripista del noir – si fondono con il realismo: «[…] quando faccio un film d’attualità […] dico sempre al mio operatore “Non voglio una fotografia elaborata, […] voglio una fotografia da cinegiornale”. Perché penso che ogni film serio, che descriva i contemporanei, dovrebbe essere una sorta di documentario del suo tempo. […] In questo senso, Furia è un documentario». Ne è la riprova l’inserimento dei nastri dell’assalto come evidenze durante il processo di Joe per contrastare la superficialità del sistema giudiziario americano e l’inabilità della corte di “vedere” la verità.
Con Furia Lang offre un’alternativa ai courtroom dramas hollywoodiani che si innalzano a promulgatori sì di ideali liberali ma di ispirazione patriottica. Furia, invece, disturba la nostra fiducia nella legge. La visione esistenziale è nel complesso pessimistica, di un mondo che trae in inganno l’uomo, trascinato nel baratro dagli impulsi più reconditi. Quello a cui Joe non resiste è la vendetta, una sorta di femme fatale a cui sembra dire di no con quel bacio finale tra lui e Kathy (Sylvia Sidney) tanto odiato da Lang – un compromesso consono al codice Hays. Un lieto fine? No. Joe ha perso i suoi valori e il suo credo nella giustizia. Chiunque può essere Joe Wilson e chiunque può ritrovarsi nella massa: è solo questione di opportunità.
SITOGRAFIA
- Peter Bogdanovich, Il cinema secondo Fritz Lang, in «Cineteca. Mensile di informazione cinematografica», IV, n.9, dicembre 1988;
- Douglas Buck, Fury (Fritz Lang, 1936), in offscreen.com, 2019;
- Stella Bruzzi, Imperfect Justice: Fritz Lang‘s Fury (1936) and Cinema‘s Use of the Trial Form, University of Warwick, 2010;
- Graham Green, The pleasure-dome : Graham Greene, the collected film criticism, 1935-40, Oxford, Oxford University Press, 1982;
- Anton Kaes, A Stranger in the House: Fritz Lang’s “Fury” and the Cinema of Exile, «New German Critique», n.89, Spring/Summer 2003, Duke University Press, pp. 33-58;
- Barbara Mennel, White Law and the Missing Black Body in Fritz Lang’s Fury (1936), «Quarterly Review of Film and Video», XX, n.3, 2003, pp. 203-223;
- Theodore F. Rippey, By a Thread: Civilization in Fritz Lang’s Fury, «Journal of Film and Video», Fall/Winter 2008, LX, n. 3/4, University of Illinois Press on behalf of the University Film & Video Association, pp. 72-89;
- Vicente Sanchez-Biosca, Fury o come nacque John Doe, in Paolo Bertetto – Bernard Eisenschitz, Fritz Lang. La messa in scena, Torino, Lindau, 1993, pp. 200-212;
- Ticien Marie Sassoubre, The Impulsive Subject and the Realist Lens: Law and Consumer Culture in Fritz Lang’s Fury,«Southern California Interdisciplinary Law Journal», XX, n.2, 2011, pp. 325-364;
- Nick Smedley, Fritz Lang’s Trilogy: The Rise and Fall of a European Social Commentator, «Film History», marzo 1993, V, n.1 , Indiana University Press, pp. 1-21;
- Gabriel Urbina, Director B-Side: Fritz Lang and ‘Fury’, in movies.mxdm.com,2015;
- Ryan Drake, Devices of Shock Adorno’s Aesthetics of Film and Fritz Lang’s Fury, «Télos», 2009, pp. 151-168
[1] Lotte H. Eisner, Fritz Lang, Mazzotta, Milano 1978, pag. 146.