His House, la recensione del film su Netflix

His House

In un momento storico di profonda crisi materiale ed esistenziale, rivelatore dell’ingombrante vuoto sul piano dei valori etico-politico-sociali che pervade le società capitalistico contemporanee, il nostro corpo-mente fatica nell’impellente e straziante ricerca di un posto nel mondo che possa essere luogo-deputato per un radioso risveglio e una catartica rinascita. L’integrazione dell’Altro – come palinsesto per la costruzione di un super organismo umanitario, fuori dall’ottica dell’obsoleta individualità, e orientato, viceversa, alla volta di una fraterna e solidale connessione tra le parti – il diritto alla vita – come florido presupposto che coinvolge l’intero universo degli attori sociali, estraneo all’ottica della competitività esasperata e dell’improduttiva meritocrazia – la volontà di riscatto – come autentica necessità propria dell’individualità, da comprendere e sentire, e non da esplodere in imperante frustrazione rischiando di travolgere chi vi sta intorno – sono punti cardinali di un planetario senza ferrei confini geografici che costringono l’uomo a navigare e destreggiarsi in un universo ampio e primordiale, abitato anche dai mostri. Sulla scia della ricomposizione coscienziale, che non può ritirarsi dall’infranto delle sue tragedie, il regista Remi Weekes costruisce con l’horror His House (Trailer) un’angosciante parabola sulla solitudine assordante e sulle difficoltà d’inserimento nella società londinese di due migranti sudanesi, ancora una volta vittime di un contesto sociale che evidentemente non li vuole o fatica ancora ad accettarli.

Già in precedenza Jordan Peele, con Get Out (2017) e Us (2019), aveva disegnato due satire orrorifiche dai tratti grotteschi sugli Stati Uniti, focalizzandosi, tra le altre cose, prima sul modo di muoversi degli afroamericani in un ambiente profumatamente falso e miseramente schiavista e poi sull’effetto di una realtà profondamente disturbata nel suo io al punto da provocare uno scambio di vita tra “chi siamo sopra” e “chi siamo sotto”. Qui, su tematiche affini, il regista esordiente Remi Weekes sposta la lente sull’Inghilterra e indaga la nuova vita di due coniugi rifugiati che, per ottenere la cittadinanza ed essere in seguito lavoratori che progrediscono al bene del paese, devono innanzitutto dimostrare di “sapersi comportare bene” e saper accogliere usi e costumi di un mondo che è civilizzato solo su carta.

In tutti e due i registi ritroviamo quindi un’analisi sulle minoranze, costrette con uno sforzo ai limiti a combattere per evadere da uno stato di cose che sconquassa la carne, penetra l’inconscio e rende tangibile il mistero e l’inverosimile: Chris Washington (Daniel Kaluuya) di Get Out rivive l’incubo deformante di Indovina chi viene a cena? (1967) di Stanley Kramer; Adelaide Thomas (Lupita Nyong’o) di Us è chiamata a difendersi dalla sua doppelganger; Bol e Rial (Sope Dirisu e Wunmi Mosaku) di His House dovranno scontare la pena dell’apeth, la strega che punisce ladri e traditori. L’America corrotta nello spirito di Jordan Peele e l’Inghilterra pigra e menefreghista nel suo animo di Remi Weekes diventano così terreno fertile per il cammino del nuovo eroe, ovvero dell’Altro/dello Straniero – anche quando questo ha messo le sue radici da tempo (è il caso di Chris e Adelaide). Questo percorso di ricomposizione coscienziale in entrambi i registi non può prescindere dalla sua agghiacciante carica orrorifica e assume di conseguenza la consistenza di una spaventosa esorcizzazione da quel Male che ha già attecchito sulla Terra ed è pronto a trascinare via con sé anche i nuovi arrivati e presunti candidati (oltre a Chris e Adelaide, anche Bol e Rial).

His House

Nonostante ciò, tra i due autori sussistono notevoli differenze. Se gli epiloghi di Jordan Peele suonano tanto come un’amara quanto silenziosa rassegnazione di fronte ad un orrore che in Get Out ha segnato il cuore di un protagonista paziente (mai troppo agente, se non alla fine) e che in Us ha costretto volontariamente lo spettatore a tifare dall’inizio alla fine per il personaggio sbagliato – le conclusioni dei due film di Peele lasciano annegare i personaggi nella pessimistica presa di coscienza che non vi può essere rimedio al buio del “mondo sommerso” – il finale di Remi Weekes vuole e deve lasciare una speranza per un futuro luminoso che può essere tale soltanto grazie al raggiungimento di una forte consapevolezza: il primo passo per rimediare ai Mali del mondo esterno è attaccare coraggiosamente e sconfiggere irrimediabilmente il mostro raccapricciante abitante dentro ogni individualità.

Proprio come Get Out e Us, anche His House prende una casa-mondo come parco giochi paradossalmente labirintico per raccontare un tripudio di forze emozionali mai scontate e fortemente rilevanti ai fini della narrazione. Bol e Rial sono legati dal comune accordo di trovare un’abitazione in cui vivere, eppure non condividono mai la stessa idea di rivalsa sociale: il primo vuole a tutti i costi sentirsi parte di qualcosa e mischiarsi – lo vediamo assistere in un pub, circondato dalla gente del posto, ad una partita di calcio e schernire col canto un giocatore, sempre assieme ai nuovi colleghi – al punto da dimenticare che le oscure presenze assalitrici sono reali e invocano il suo tradimento; la seconda ha bisogno del rispetto senza tregua delle sue origini – minacciato sia dagli offensivi commenti di inutili trogloditi e sia dalla troppa voglia di tenerezza di una dottoressa che però è estranea alla tragedia degli sbarchi e non conosce le dure esperienze di Rial – e non mancherà anche lei di accusare il marito. Bol sarà così vittima delle sfiancanti prove dell’apeth e dei durissimi schiaffi di Rial, poiché egli è il falso eroe che ha lasciato morire i suoi figli, compresi la piccola Nyagak e i compagni sudanesi, e che necessita di una catartica riconciliazione interiore.

In definitiva il film di Remi Weekes è una parabola spaventosa che approfondisce straordinariamente l’effetto del disinteresse collettivo sulla pelle dello Straniero, mascherandolo attraverso una storia di fantasmi; questa stimola anche la riflessione sulle innumerevoli difficoltà che devono affrontare molti rifugiati, costretti ad abbandonare la vita passata, a sopportare anche l’indifferenza del nuovo mondo e a fare i conti con i propri demoni. His House è una prima regia che non segue la strada della chiarezza narrativa – molti tagli di montaggio appaiono volontariamente intenti a provocare nello spettatore una deformazione della ricostruzione razionale – e che inserisce evidentemente se stessa all’interno di una fitta rete meta testuale, di cui fanno parte anche le opere di Jordan Peele. Remi Weekes, così come il suo “predecessore”, costruisce un horror floridamente penetrante e scava nelle propaggini più irrazionali, fino al raggiungimento della consapevolezza che forse nessuno è veramente al sicuro dai propri mostri.

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