Intervista a Francesco Iezzi, creatore e regista della smartserie Plurals

Francesco Iezzi regista di Plurals

In occasione del recente arrivo della smartserie Plurals su diverse piattaforme web, DassCinemag ha avuto modo di scambiare qualche parola con Francesco Iezzi, uno degli ideatori del prodotto nonché regista dei sette episodi della serie.

Partiamo dalle radici del discorso. Come nasce Plurals e qual è il suo percorso produttivo e poi distributivo attraverso le piattaforme?

Il discorso è un po’ lungo. Plurals nasce da un’idea mia e del produttore e direttore della fotografia Claudio Zamarion che ha una casa di produzione a Roma, l’Angelika Vision. Ci eravamo incontrati in ambito cinematografico e avevamo in ballo alcuni progetti che stavamo portando avanti, fin quando tra questi abbiamo selezionato questa idea che era comunque particolare in quanto nasce dalla volontà di fare un lavoro che fosse pensato per i giovani provando a usare il loro stesso linguaggio. Io mi occupo anche di insegnamento, nello specifico di linguaggio dei nuovi media, e per me è importante l’utilizzo e lo studio del mezzo e come un messaggio viene veicolato attraverso le varie forme espressive. Insomma l’idea di partenza era di provare a raccontare il mondo adolescenziale attraverso il linguaggio dei giorni d’oggi. Da qui è partita una ricerca dei finanziamenti che sono arrivati per la maggior parte attraverso un bando, un concorso pubblico del Ministero delle pari opportunità indetto già diversi anni fa, nel 2017, su un progetto finalizzato al contrasto della violenza di genere. Dall’unione delle richieste del progetto, legate in particolare al tema della violenza sulle donne, e dei nostri spunti iniziali nasce Plurals. Da qui poi arrivano anche il soggetto e la sceneggiatura, scritta da me, un collega e dalla psicanalista Maria Rita Parsi, che ci ha fornito un contributo anche scientifico nel delineare la storia evitando allo stesso tempo di cadere negli stereotipi più comuni e abusati. Dopodiché abbiamo ragionato su come mettere il lavoro in scena. Dopo una serie di discussioni col produttore, che si è appunto anche occupato della resa visiva del progetto, abbiamo provato il formato del 9:16 che tutti conosciamo per essere lo standard delle storie di Instagram. Un formato sicuramente già utilizzato in settori, ad esempio, come quello del videoclip, ma poche volte applicato al mezzo narrativo un po’ più compesso. Ci siamo presi un rischio nel raccontare la storia seguendo questo formato, in quanto erano inevitabili anche i problemi tecnici del come realizzarlo e di come focalizzare il punto di vista di questo specifico linguaggio. Vengo dal cinema più tradizionale e per me, così come anche per la troupe, la sfida è stata trovare una nuova ridefinizione del linguaggio cinematografico e più in generale audiovisivo, partendo dal ripensare l’inquadratura, i movimenti di macchina, ecc. Il lavoro si è rivelato stimolante da applicare alla narrazione perché non scade mai nell’essere un vezzo artistico ma si rivela funzionale per arrivare al pubblico di riferimento che ci interessava, quello degli adolescenti. Da un punto di vista distributivo invece è stato più complesso. Da un lato c’è l’entusiasmo di provare a fare qualcosa che non ha fatto nessuno, dall’altro però se non l’ha fatto nessuno ti fa pensare che magari un motivo dietro c’è. C’è sempre una bilancia di incertezza, a maggior ragione in un periodo complicato come quello che stiamo vivendo che non rende affatto facile trovare uno sbocco sul mercato. Qui la fortuna è stata che la produzione ha stretto un accordo con Minerva Pictures che ha deciso di investire sul prodotto e da lì collocarlo su alcune piattaforme, quella di Film&Clips su YouTube, successivamente su Amazon Prime Video, Chili, ecc. e tutt’ora stiamo ancora lavorando per trovare ulteriori canali distributivi che rimangono tuttavia vincolati alla stranezza del formato, dove la sfida resta quella di capire quale sia la maniera più corretta di fruizione da offrire alle persone.

A proposito degli adolescenti, Plurals è sostanzialmente un lavoro che si avvicina ai teen drama. Come percepisce le influenze dei prodotti seriali contemporanei e di successo che gli sono affini come ad esempio Skam?

Ci sono molti punti in comune con i teen drama e già in fase di ideazione avevo in mente i miei riferimenti ai quali avvicinarmi, anche se parliamo di prodotti che possono contare su budget di ben altri livelli. Skam è senz’altro uno di quei riferimenti, non tanto dal punto di vista narartivo, quanto da quello che riguarda il lavoro fatto con gli attori. Trovo interessante lavorare con giovani attori che non hanno alle spalle grandi esperienze, e in particolare nelle opere che trattano di adolescenti l’idea di lavorare con ragazzi che sono alle prime armi ti permette di ottenere un valore aggiunto se riesci a trarre qualcosa dalle esperienze dirette dei ragazzi, così come credo sia appunto avvenuto in Skam. Poi chiaramente ci sono tanti altri riferimenti che sono lì nella testa di un autore, tra i quali senz’altro di ispirazione è stata anche Euphoria che dal punto di vista narrativo e visivo offre davvero tantissimo. Ci sono anche molti modelli di teen drama dal passato come Dawson’s Creek e Beverly Hills 90210, che sono certamente distanti dal tipo di lavoro portato avanti in Plurals ma che permettono allo stesso modo di trarre qualcosa nella ricostruzione di un mondo che è quello che vivono i giovani.

Ricollegandoci proprio a Euphoria e al suo forte carico di disagio generazionale, per il tuo lavoro ti sei avvalso delle possibilità del web e delle sue opportunità di diffusione. Nello specifico il focus di Plurals è però posto sull’utilizzo disfunzionale e negativo della tecnologia e della rete, quasi a rimarcare quelle increscapture di cui già la serie statunitense si fa espressione.

Più che negativa la definirei realistica, nel senso che in Plurals provo a raccontare il rapporto che hanno gli adolescenti con il mondo, che è filtrato dalla tecnologia ed è inevitabile scontrarsi con questo argomento. Ci può stare che lo spettatore possa trovare l’aspetto negativo nell’utilizzo che i giovani fanno dello strumento tecnologico, nel rapporto sostanzialmente naturale di coloro che sono nati dentro la tecnologia e non hanno avuto modo quindi di rielaborare questa realtà. Questi ragazzi ne hanno conosciuto l’influenza direttamente su loro stessi, in quella che è una connessione simbiotica dove non c’è distinzione tra ciò che puoi fare e ciò che non puoi fare con lo strumento tecnologico e i social, dove questi elementi sono divenuti presenza perenne nella vita dei giovani ma anche degli adulti. Abbiamo raccontato il rapporto degli adolescenti con la tecnologia e pensiamo per esempio a Black Mirror, che racconta gli aspetti peggiori che derivano però da una propensione che dovrebbe essere l’opposto e che mostra però le conseguenze non calcolate. Ed è più o meno ciò che facciamo noi, abbiamo usato social e tecnologia degli smartphone che fanno la cornice a una storia che crea poi un circolo vizioso. Quel mondo va raccontato anche con gli strumenti che esso stesso mette a dispozione, dove se si vuole andare a trarre un bilancio forse questo è più negativo che positivo, senza però dimenticare che c’è ancora da capire che evolzione avrà questo mondo. Il mio è un occhio che tenta di rimanere il più imparziale possibile, ma dà inevitabilmente un giudizio che forse al momento è per lo più pessimista.

Pensi che la tecnologia, e il suo sostanziale annullamento dei filtri, abbia accentuato e dato maggiore sfogo a certe perversioni nel mondo dei giovani?

In linea di massima sì. Aggiungo però che la tecnologia in mano a chi non l’ha vista nascere ma l’ha subita è un’arma a doppio taglio. Ti permette di fare tutto con poco, dà una sorta di delirio di onnipotenza che però sembra non portarsi dietro conseguenze. Per fare il video di una rapporto sessuale basta premere il tasto rec, poi basta inviare un messaggio e quel video inizia a circolare. La tecnologia permette una facilitazione e annulla la sensazione della conseguenza. Quando si commette un reato questo considera comunque la presenza di un ostacolo. Se uccido una persona con un coltello quel coltello devo averlo e usarlo, compio cioè un atto che necessita di una sorta di consapevolezza. I reati commessi attraverso la tecnologia e il web tolgono questo filtro e tutto diviene facile, non c’è nessuna opposizione. Cosa mi costa registrare la scopata, cosa mi costa inviare quel video agli amici? Nulla. Questa facilitazione nell’ottenere tutto ‘a portata di click’ deresponsabilizza molto il soggetto, quasi del tutto. La consapevolezza è il primo passo per arrivare a una redifinizione quasi della morale su questi argomenti e su questi fatti. Non è possibile fare tutto ciò che vuoi, ci vuole consapevolezza sulle azioni che compi. Plurals prova a dire ‘ragionate su ciò che fate, non agite solo perché siete dentro a quello specifico mondo ma prendete coscienza delle scelte che prendete’, che è il senso dietro tutta la trama.

Legato a questo discorso, in Plurals assistiamo anche al fallimento dell’istituzione scolastica in quanto organo incapace di intercettare le difficoltà e le aberrazioni dello strumento tecnologico in mano ai ragazzi.

Non solo l’istituzione scolastica, ma anche la famiglia come altro polo che dovrebbe porsi salvaguardia di questi giovani. Mai come queste ultime generazioni il divario si è allargato nel tentare la comunicazione con i giovani, dove si rivela molto complesso stare dietro a una generazione che evolve a una velocità doppia rispetto a quella degli insegnanti. Lo stesso vale per le famiglie. I ruoli dei genitori, in particolare quello del padre, si rivelano privi di autorità. La famiglia conta meno e la scuola conta ancora meno, cambia il rapporto con quelle che dovrebbero essere figure di riferimento e avviene una caduta della figura dell’adulto. L’adolescenza è sempre stata un’età della ribellione, deve esserlo e guai che non lo sia, però è sempre stata una ribellione abbastanza costruttiva dove volersi ribellare alla generazione precedente è un motivo di crescita. In maniera pessimistica io questo non lo vedo nell’attuale generazione. C’è una falsa ribellione, non c’è una vera rivalsa nei confronti degli adulti, c’è più la volontà di ignorare queste figure perché si ritiene che tanto loro non sappiano cosa interessa ai giovani, che continuano chiusi e isolati per la loro strada, reale o virtuale che sia. La scuola dovrebbe vigilare su come i giovani e i ragazzi si rapportano alla realtà e spesso non ci riesce benché ci provi. La serie prova a sviscerare i vari motivi che sono tanti e si diramano in tante sfaccettature, che è anche l’idea che c’è in Plurals che significa appunto anche questo, pluralità di vicende non facilmente canalizzabili da un’unica fonte. 

Visto che ti sei affacciato a questa realtà produttiva e distributiva della rete, hai intenzione di continuare su questa strada o pensi di voler inidirizzare altrove i tuoi progetti?

Di progetti futuri ce ne sono tanti, bisogna capire su quali spingere sull’acceleratore. Per mia formazione artistica sono sempre stato predisposto alla sperimentazione. Prima del cinema vengo dalla videoarte e quindi da un’attenzione a lavorare sui formati e sui mezzi di ripresa, riflessioni che sono alla base dei miei interessi e della mia preparazione. Da qui a breve termine mi piacerebbe però iniziare a lavorare su un progetto più classico, un lungometraggio in costume girato negli anni ’80 in formato 4:3 dove possa andare a ragionare sull’aspect ratio della tv dell’epoca. L’idea è ancora in fase embrionale e non escludo anche che possa esserci un seguito antologico di Plurals, sulla quale stiamo ragionando e vedendo di giorno in giorno come cresce.

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