Beau ha paura, la recensione: recidere il cordone ombelicale

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Per Ari Aster le maggiori storture della vita si originano all’interno della famiglia. È così già da The Strange Thing About The Johnsons, tesi di laurea di Aster ai tempi dell’AFI Conservatory, dove un padre vive una prolungata storia di abusi sessuali ad opera di suo figlio. Resta poi come fil rouge della giovane filmografia del regista statunitense: prima nelle disfunzioni ed isterie familiari dell’esordio Hereditary, poi in qualche modo pure nel successivo Midsommar, dove la protagonista Dani si trascina dietro il trauma di una sorella suicida che ha causato la morte anche dei genitori. Beau ha paura (trailer) non fa eccezione a questo assunto, anzi ci sguazza dentro, rincara la dose mentre si gonfia ed espande tra fobie e questioni irrisolte.

Beau (Joaquin Phoenix da adulto, Armen Nahapetian da adolescente, James Cvetkovski da bambino), infatti, ha molta paura. Per lui il mondo che sta all’esterno del suo miserabile appartamento è un qualcosa di spaventoso, da evitare a tutti i costi. Il suo filtro delle cose è differente dal nostro. Lui vede gente morta stecchita stesa in strada, gente che corre con coltelli stretti in pugno desiderosa di affettarti, gente pronta a cacciarti di casa ed a prendere il tuo posto. Un caos intollerabile che sta solo a preambolo di un viaggio che Beau è chiamato a compiere: deve andare a trovare sua madre. Ma coerente con la non linearità di sguardo che il protagonista ha sulla realtà che lo circonda, anche questa sua apparentemente semplice decisione si tramuta in un’Odissea colma di pericoli.

Beau ha paura, a differenza dei riverberi più raffinati dei film che l’hanno preceduto, si palesa molto presto su cosa vuole affrontare e sul come vuole farlo. A partire dalla seduta psicanalitica con la quale il tutto si apre, l’argomento della discussione è sempre e solo uno: il rapporto con il genitore del sesso opposto. «Hai mai desiderato che fosse morta?» gli chiede il suo terapista (Stephen McKinley Henderson) in riferimento a sua madre. Poco ci vuole a spolverare qualche basilare concetto di psicanalisi, appunto, e tirare sul banco le formulazioni relative al complesso di Edipo e alla cronica inadeguatezza del maschile. Poco ci impiega Aster a chiarirci di averci trascinato nella vita di un castrato.

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Perché Beau è così? Forse per il fatto di essere stato soffocato dall’ambiguo affetto di questa donna (Patti LuPone e Zoe Lister-Jones) che gli ha sempre raccontato che il padre – di cui c’è solo una foto sfocata appesa nell’appartamento di Beau – è morto a causa di un difetto genetico nel momento del concepimento del figlio, così come suo padre prima di lui e il padre di suo padre ancora prima? Ecco, la filigrana di Beau ha paura è molto spessa. Le tragicomiche peripezie in cui Beau incappa nel tentativo di ricongiungere centimetro dopo centimetro il cordone ombelicale che lo tiene ben saldo alla pancia di sua madre scivolano in un grottesco amaro ed irrimediabile.

Prima il faticoso tentativo di uscire dall’utero della sua casa (tema da cui si originava anche Beau, il cortometraggio originario del 2011), poi l’infantile accudimento presso l’abitazione di due genitori surrogati che gli leccano le ferite (Amy Ryan e Nathan Lane), infine il tormentato cammino di una vita adulta e solitaria. Vertigini che scandiscono i rintocchi del film riuscendo solo in parte a giustificare la scelta di una durata monstre di tre ore. Perché sì, la durata di un film conta eccome e di questi tempi, fatti di frammentazione dell’immagine e dispersione repentina di senso logico e cronologico, è addirittura o manifesto o dichiarazione d’intenti. Soprattutto quando questa durata non è sintomo di densità (pensiamo a Babylon di Chazelle: che piaccia o meno, era densissimo), bensì di ridondanza tematica, di chiusura, di esile circolarità.

Questo non toglie a Beau ha paura alcuni slanci visionari che puntellano il talento difficilmente negabile di Aster. Un esempio lo è la splendida sequenza del campeggio-teatro, dove il protagonista si ritrova risucchiato ad essere lo spettatore-attore di una vita non ancora vissuta. Ma viaggiando controcorrente rispetto a un cartello appeso proprio in questa comunità boschiva che recita «Nothing to excess», una massima dell’etica ellenistica che invita alla moderazione, Aster pare invece lasciarsi prendere la mano sotto il benestare della produzione dell’ormai sempre più colosso dell’A24, casa di produzione forte d’aver sparigliato tutte le carte sul tavolo in sede della recente stagione dei premi.

Di quello che ci ha dato modo di vedere fino a questo momento, Beau ha paura è l’opera che con più difficoltà concilia i turbamenti dai quali scaturiscono i lavori cinematografici del regista a una messa in scena che sappia imbrigliarli nei rapporti di forza tra intenzioni e resa. Interessante notare come il terzo film sia chiave di volta per Aster così come lo è stato qualche tempo prima anche per l’altro enfant prodige dell’horror statunitense, Robert Eggers. Se Eggers aveva però scelto il grande budget per assaltare il grande pubblico con The Northman, fallendo quantomeno alla prova del botteghino, Aster sceglie la via opposta ma speculare di rifuggire i notevoli successi commerciali dei film precedenti per chiudersi in uno slancio ermetico, arcigno e forse sì infantile, senza troppo mordente e probabilmente senza un reale pubblico.  

Insomma, Beau ha paura traccia i suoi connotati come se fosse un film della vita a cui basta sostanziarsi in se stesso. Eppure la caratura tradisce una gemma grezza e poi non così preziosa, figlia di un vezzo autoriale per la prima volta davvero distante dalla brillantezza a cui siamo stati abituati. C’è tempo per rifarsi, speriamo. Il film è in sala dal 27 aprile.

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