#RendezVousXIV: Le Procès Goldman, la recensione del film di Cédric Kahn

Recensione del film Le Procès Goldman, diretto da Cédric Kahn e presentato in anteprima nazionale al Rendez Vous Festival del Nuovo Cinema Francese.

Pierre Goldman è “un figlio della Shoah”. Nato il 22 giugno del 1944 a Lione, da genitori ebrei polacchi e sostenitori attivi della Rivoluzione francese. Intellettuale di sinistra, disertore dell’esercito e aspro oppositore dei sessantottini parigini – per lui un branco di ragazzini che al calar del tramonto tornavano al riparo dai propri genitori -, viaggerà negli anni Sessanta per conoscere a stretto contatto le realtà cubane e venezuelane. Verrà arrestato nel 1970 con l’accusa di aver commesso quattro rapine e un duplice omicidio tra il dicembre del 1969 e il gennaio 1970 a Parigi, tra il quinto e l’undicesimo arrondissement. Dopo aver scontato cinque anni di detenzione, nei quali porterà a termine la stesura della sua autobiografia Souvenirs obscurs d’un juif polonais né en France (Memorie oscure di un ebreo polacco in Francia), il tribunale di Amiens, con un processo che inizierà il 26 aprile del 1976 e si concluderà il 4 maggio dello stesso anno, si esprimerà definitivamente sulle accuse che pendono sul suo capo. Le Procès Goldman (trailer) è un legal drama che ri-mette in scena alcune udienze di quel famoso processo.

«Sono innocente perché sono innocente», sosterrà sin dall’inizio Pierre Goldman, che a una settimana dalla prima udienza ha scelto di scaricare il suo legale Georges Kiejman. Il rapporto tra Goldman e il suo legale è altamente conflittuale, tanto che Kahn dedica l’incipit della sua pellicola proprio a questo momento. I motivi per questo licenziamento preventivo (che non avrà nessun effetto perché Kiejman continuerà a difendere Goldman) sono due: l’imputato sente di poter reggere da solo l’accusa; Kiejman è un ebreo borghese che ce l’ha fatta, che non appartiene più ad una comunità oppressa («Non c’è differenza tra ebrei e neri», dirà a tal proposito Goldman).

Per l’imputato è una questione ontologica la sua innocenza: non avrebbe mai potuto ammazzare due persone indifese, tantomeno colpendole alle spalle. Se proprio dovessimo inquadrare questo processo, secondo la sua logica, allora la questione diventerebbe politica. La polizia parigina è solamente razzista ed egli un personaggio scomodo, da eliminare più per le sue idee che per gli atti che ha commesso. Ed effettivamente Goldman riscuote molti consensi presso il pubblico alle sue spalle, lo fomenta (c’è da notare, a tal proposito, quanto la causa di Goldman venne sostenuta anche da intellettuali come Simone Signoret e Jean-Paul Sartre). Proprio lui, che non avrebbe mai voluto rendere spettacolari queste udienze. 

Recensione del film Le Procès Goldman, diretto da Cédric Kahn e presentato in anteprima nazionale al Rendez Vous Festival del Nuovo Cinema Francese.

Cédric Kahn, assieme alla sceneggiatrice Nathalie Hertzberg, sceglie di non uscire mai da quell’aula di tribunale, così piccola ma allo stesso tempo densa di vite ed esperienze che riassumono la storia di un paese in un decennio così movimentato. Lì dove non arrivano le parole dei testimoni, del giudice, degli avvocati o dell’imputato, arrivano le didascalie. Nessun commento musicale. Tre macchine da presa registrano l’azione in simultanea, in un valzer di punti macchina che pone al suo centro lo scranno del giudice. Kahn, infatti, sembra invitare lo spettatore ad immedesimarsi nel ruolo di quest’ultimo per stabilire il proprio punto di vista. Il copione da seguire è stato affidato alle sole parti chiamate in causa, mentre ai figuranti è stato chiesto di seguire il ritmo della sceneggiatura (il film è stato girato rispettando l’ordine della scaletta) e scegliere liberamente per chi parteggiare. D’altronde, uno dei punti del film è proprio questo: l’aula di tribunale per Kahn è un luogo dove, in situazioni del genere, è necessario ascoltare qualsiasi individuo che prenderà parola.

E poi, le interpretazioni. Se da una parte il disegno mimetico di Kahn risulta efficace, in grado di allontanare qualsiasi sguardo retorico, posticcio e anacronistico della macchina da presa, dall’altra parte l’apporto fornito dagli attori risulta decisivo per il confezionamento di un legal drama solidissimo. Arieh Worthwalter incarna alla perfezione, tramite il suo perenne sguardo imbronciato, la fisicità di un personaggio complesso come Pierre Goldman, senza il bisogno di over-performare nei momenti in cui gli scambi si fanno più concitati. Arthur Harari, interprete di Georges Kiejman, rende al meglio delle sue possibilità le difficoltà di un legale diviso tra un cliente che lo rifiuta e un processo ostico, quasi totalmente privo di prove o alibi a sostegno delle sue ipotesi.

Le Procès Goldman è, dunque, un film decisamente riuscito, in grado di ricordare al proprio pubblico sia una pagina dimenticata della nostra storia recente (se non sconosciuta, soprattutto al di fuori dei confini francesi) sia come gestire uno spazio angusto attraverso una sceneggiatura ben scritta e un lato tecnico in grado di esaltare i pregi dei propri interpreti.

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.