Suzume no Tojimari, la recensione: perdersi e ritrovarsi

Suzume no Tojimari, la recensione del film diretto e sceneggiato da Makoto Shinkai, presente alla 73° edizione del festival di Berlino

Una bambina che vaga in lacrime, persa tra le macerie di una città ormai distrutta, alla ricerca della propria mamma. Suzume no Tojimari (trailer) del regista nipponico Makoto Shinkai, autore dei famosissimi Your Name e Weathering With You, inizia proprio così, con un sogno che in realtà è un ricordo, dei più dolorosi, della diciassettenne Suzume Iwato, che all’età di quattro anni si ritrova orfana di madre a vivere la devastazione successiva il violentissimo Terremoto-maremoto del Tōhoku. La morte di un genitore, soprattutto se avvenuta in seguito ad un evento improvviso come un terremoto, sollecita a ragionare sulla precarietà dell’esistenza umana, su quanto volubile sia il tempo su questa terra, e fa apparire la morte più prossima di quanto prima percepita.

Suzume però non sembra avere paura della morte e lo afferma con forza in uno dei primissimi dialoghi con Sōta, misterioso ragazzo arrivato in città per chiudere uno dei passaggi che conducono nell’altrove, un mondo parallelo il nostro cui accesso è impossibile per i viventi. Lì infatti riposano le anime dei defunti e da secoli vi viene tenuto a bada il verme, un’entità invisibile ai più la cui fuoriuscita rischia di provocare devastanti terremoti, cui è compito dei chiudi-porta sigillare le vie di fuga.

Pur facendo particolarmente leva sul pubblico giapponese andando a toccare quelli che sono i traumi collettivi del paese del sol levante da sempre costretto a fare i conti con la furia della terra, l’opera di Shinkai colpisce e commuove anche lo spettatore internazionale ed è per questo che non stupisce la presenza del film – il primo anime in concorso dopo vent’anni dalla nomination de La città incantata di Hayao Miyazaki – nella 73° edizione del festival di Berlino. Suzume no Tojimari si dimostra capace non solo di stupire ed impattare a livello visivo ma in grado anche di toccare corde universali. Quella di Suzume è una storia circolare che inizia con una porta e finisce con una porta, è una storia di pacificazione con la terra e riconciliazione con se stessi e i propri demoni, un road movie dai contorni favolistici che viene giocato tutto sulla coesistenza di due mondi tra loro paralleli.

Suzume no Tojimari, la recensione del film diretto e sceneggiato da Makoto Shinkai, presente alla 73° edizione del festival di Berlino

Due dimensioni coincidenti e connesse che mai però dovrebbero entrare in contatto diretto ma che inevitabilmente finiscono con lo scontrarsi, generando catastrofi. Un tema sicuro centrale nell’opera di Shinkai ma non unico elemento binario. Suzume no Tojimari infatti è un connubio di parallelismi e corrispondenze, un’opera bilanciata che pur presentando ad un primo livello narrativo la mescolanza di tematiche delicate e complesse, come la scomparsa di un genitore o la perdita di se stessi, con buffi scenari d’inseguimento tra gatti parlanti e sedioline a tre gambe, dimostra nel profondo una maturità espressiva tale da riuscire a tracciare il profilo di un viaggio a cavallo tra i mondi, tra spazi interiori e dimensioni reali, magia e concretezza, quiete e presagi di distruzione.

Ha in questo un peso importante l’animazione. La portata espressiva delle immagini riesce a colpire in maniera inaspettata e si fa carico di buona parte della potenza narrativa del film. A livello visuale infatti i suggestivi contrasti tra la calma apparente dei paesaggi animati e i presagi di devastazione visibili negli occhi della protagonista rendono proprio quanto precaria sia la stabilità della terra. L’alternarsi tra scene di tranquillità e scene di distruzione, il vociare delle persone, la resa dei ricordi, tutto concorre. «Un sacco di persone stanno per morire», sentenzia anche Daijin, il gatto parlante che avrebbe dovuto sigillare uno dei portali, e racchiude in questo presagio di morte tutta la fatalità della vita umana.

Un trauma psicologico è una ferita dell’anima e nel complesso intreccio della trama anche la psicologia della protagonista trova un suo preciso corrispettivo. In Suzume questa ferita non è mai stata sanata e il viaggio intrapreso con Sōta non sarà solo un viaggio attraverso il Giappone alla ricerca di passaggi da chiudere, ma anche un viaggio per ritrovare se stessa e chiudere ferite che non sono mai state sanate. Perché guarire dal dolore non significa ostentare forza ma vivere la propria sofferenza e ammettere che, ogni tanto, la morte può anche fare paura.

Suzume no Tojimari è in sala dal 27 aprile

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