BAC Nord, la recensione del film su Netflix

BAC Nord recensione film Netflix DassCinemag

Sbarca su Netflix BAC Nord (trailer), il poliziesco diretto da Cédric Jimenez e scritto dal regista insieme a Audrey Diwan, fresca di Leone d’oro per il film L’Événement. BAC sta per Brigate Anti Crimine, in pratica una squadra di poliziotti che si occupa dei crimini che avvengono in quei quartieri popolari descritti come dei «sobborghi di merda», in cui vige una sorta di autogestione criminale così tanto forte e radicata da non permettere ai poliziotti nemmeno di entrare in alcune zone.

Il film è tratto da una storia vera accaduta nel 2012, un caso giudiziario che vide coinvolti una squadra di poliziotti che non si menzionerà per evitare anticipazioni sulla trama. Su questa però bisogna accennare qualcosa: la storia si sofferma su tre poliziotti della BAC, la loro autorità non viene riconosciuta né rispettata nel quartiere mentre i loro capi si concentrano sui numeri anziché dei risultati, quindi i protagonisti vivono la frustrazione di sentirsi inutili al centro di due poli contrastanti. Tutto cambia quando i capi gli chiedono dei risultati e loro iniziano a organizzare una retata per stanare il traffico di droga.

Il film si inserisce nel sobborgo nord di Marsiglia, in un quartiere nel quale le organizzazioni criminali sono composte da membri mascherati (una caratteristica d’impatto ma controproducente, che alimenta la loro depersonalizzazione). Sembra una zona di guerra, sensazione che viene confermata in una scena, quando la squadra tenta di inseguire un’auto rubata che si inoltra nel quartiere ma viene fermata dai criminali: non possono entrare in quel territorio. Vedere degli individui mascherati così prepotenti e aggressivi in un contesto cittadino restituisce un’immagine sicuramente forte, tuttavia la loro caratterizzazione si ferma appunto a questa descrizione piatta e superficiale dei cattivi da combattere.

Lo scontro tra le brigate e i briganti verge sicuramente verso i primi, in una costruzione ideologica che anziché montare il contesto sociale e descrivere le sue problematiche si preoccupa di creare quel tessuto narrativo comodo per il racconto: conosciamo i buoni, dei cattivi non ci importa. Anche per questo motivo, BAC Nord è fortemente schierato ideologicamente, invalidando così quella premessa che vorrebbe raccontare una «storia vera», suggerita orgogliosamente dall’immancabile avviso iniziale.

Nel primo atto vengono presentati i tre protagonisti in alcuni tentativi maldestri di caratterizzare le persone dietro i loro ruoli. Oltre a uno sbilanciamento dei personaggi, questo tentativo di umanizzazione stride con il loro ruolo lavorativo, poiché da poliziotti spesso assumono atteggiamenti prepotenti sul confine della legalità. Insomma, fanno valere la loro autorità nel quartiere, in una condotta prossima a quella dei criminali a cui danno la caccia. È comunque intenzione del film di descriverli come delle vittime del sistema amministrativo e politico della città, mentre le vere vittime, in questo impianto piramidale (dove vive la legge del più forte) suggerito dalla limitata caratterizzazione del contesto, non hanno voce né vengono mai mostrate, se non in una battuta di sfuggita, quando uno dei protagonisti cita i cittadini ormai disillusi delle istituzioni. C’è quindi una confusione ideologica di base, la quale si ingarbuglia ulteriormente a metà film, quando il discutibile ruolo vittimista dei protagonisti si rafforza in una svolta importante della trama.

L’intenzione di BAC Nord è quindi quella di raccontare una storia (un fatto giudiziario molto popolare in Francia, meno nel resto del mondo) da uno specifico punto di vista, ignorando in questo modo tutta la contestualizzazione. Ma anche visto come un mero racconto, il film perde facilmente di interesse, diventando irrimediabilmente teatrale nel modo in cui, dal secondo atto in poi e in particolare nell’atto finale, presenta il contesto e gli stati d’animo dei protagonisti. La causa è anche nella direzione degli attori (Gilles Lellouche, Karim Leklou, François Civil, Adèle Exarchopoulos) spesso improntata su un’enfasi che sicuramente stona in un contesto che punta al realismo.

Perché è forse questo il problema principale attorno al quale ruota BAC Nord: quella ricerca del realismo che collide con il racconto. Jimenez punta a una regia attenta, spesso incentrata sulla camera a mano, che rincorre i personaggi in riprese frenetiche per un’atmosfera più autentica, però al contrario incentra il racconto con un tono melodrammatico, con situazioni costruite che restituiscono un senso artificioso. In questo modo, BAC Nord si avvicina molto più di quanto vorrebbe a un cinema di intrattenimento fine a se stesso.

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