Tre piani, recensione: il caos (quasi) calmo di Nanni Moretti

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Dopo un film dalle premesse interessanti ma dal risultato zoppicante come Habemus Papam e il decisamente non convincente Mia madre, Nanni Moretti torna con Tre piani (qui il trailer), adattamento dell’omonimo romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo.

La trama gira attorno ai residenti di un piccolo condominio di Roma e i loro apparentemente piccoli drammi di vita a seguito di un tragico evento. Il cast è ricchissimo e va da Margherita Buy ad una bravissima Alba Rohrwacher, da Riccardo Scamarcio ad Adriano Giannini fino allo stesso Nanni Moretti, immancabile nelle proprie pellicole, ma questa volta in un ruolo decisamente più marginale. E forse è proprio da questo piccolo aspetto che bisogna partire per parlare di Tre piani.

Negli anni, Moretti ci ha abituati a personaggi variopinti ma che avevano tutti in comune una grande vena polemica. Ora, invece, il ruolo del polemico Moretti lo ha appeso al muro, perché è invecchiato, ed in una qualche maniera maturato, per indossarne uno decisamente più “adatto” alla sua età: quello del padre. Stiamo parlando di un padre che racchiude tutte le accezioni negative che il termine può contenere: rigido, inamovibile fino all’eccesso e anaffettivo nei confronti di un figlio sempre sotto processo e che lo detesta. Adesso, dopo film come Ecce bombo e Sogni d’oro, è lui il vecchio che bisogna contestare, e questo, Moretti, sembra averlo capito perfettamente. Bisogna lasciare spazio ai giovani, sono loro che devono essere polemici, arrabbiarsi, e anche sbagliare… certe volte nei modi peggiori.

Questo farsi da parte si riscontra immediatamente all’interno della pellicola perché il suo personaggio, il giudice Vittorio, appare per pochissimo se si considerano le due ore di durata della storia. È un vecchio che non cambia, fermo nelle sue convinzioni anche davanti ad un piccolo e dolce ricordo del passato, eccessivamente duro ma senza una motivazione spiegata allo spettatore. E così dev’essere, le prossime generazioni devono andare avanti, ignorare le ragioni di chi le ha precedute (come ha sempre fatto Michele Apicella), andare per la loro strada lasciandosi dietro tutto con un taglio netto, risoluto, definitivo. Moretti non è indulgente con le vecchie generazioni, perché non lo è con sé stesso, perché la colpa è grande e il perdono lontanissimo.

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Tre piani è un film che si sviluppa per sottrazione. Quando si arriva all’apice lo si fa attraverso il gesto, l’azione portata a compimento, mai con il detto, l’urlo. Si è presa coscienza nel silenzio e si è compiuto il gesto senza parlare. Il caos (quasi) calmo dei personaggi è quello della loro intimità d’individui (soli, anche se in coppia) e non se ne mostra mai l’esplosione sullo schermo. O meglio, quando l’esplosione viene mostrata non porta mai avanti la trama, è fine a sé stessa, muore nel momento in cui si concretizza. Invece, l’atto silenzioso, il gesto, è ciò che veramente turba gli equilibri, gli ancoraggi dei residenti del piccolo condominio; quel piccolo mondo impermeabile all’esterno che estrania i suoi residenti. Pare quasi che tutto ciò che esca dal condominio sia come se non esistesse. Anche le situazioni irrisolte, aperte, perdono importanza se escono dalle quattro mura. Solamente andando contro questa malsana tendenza, si potrà arrivare, forse, ad un senso di consapevolezza più profondo, nuovo.

Altro grande tema della pellicola è lo scambio generazionale, i rapporti tra genitori e figli, nonni e nipoti. Tratta di come il passato possa influenzare il presente diventando altamente rischioso per il futuro. Qui si possono, forse, leggere i tre piani come le tre generazioni raccontate nel film? E si può avvardare che se i primi due possono essere fallimentari, magari dal terzo piano la vista non sarà così male.

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