Walter Fasano su “Pino” e il montaggio

Pino, documentario walter fasano

Pino (trailer) è decisamente tra i titoli più folgoranti dell’ultima stagione, un delicato e sincero ritratto dedicato alla memoria di uno degli artisti più importanti nel panorama dell’arte contemporanea, Pino Pascali. Walter Fasano, montatore, regista e sceneggiatore, ha diretto un documentario “totale”: parte dal cinema, soprattutto quello francese degli anni Sessanta – amore non troppo velato -, per rivolgersi alla musica, alla storia e infine alla poesia. Discuterne direttamente con l’autore è stata una grande occasione di approfondimento, uno svelamento del processo artistico e produttivo che rendono Pino un unicum nella produzione italiana attuale, da vedere e rivedere con ammirazione e fascino.

Intervista realizzata in collaborazione con Francesco Gizzi.

Luca Di Giulio: Come nasce il progetto di Pino e come nasce la collaborazione con la Fondazione Museo Pino Pascali?

Walter Fasano: Pino è un film che nasce su commissione. In occasione di un mio viaggio a Bari – la mia città natale – sono entrato in contatto con il Museo Pino Pascali, alla ricerca di un regista per documentare un’operazione importante: l’acquisizione di un’opera di Pascali, i Cinque bachi da setola ed un bozzolo. Colto in contropiede ho chiesto ventiquattro ore per rifletterci, al termine delle quali ho proposto di fare un film di fotografie, dando come riferimento La Jetée di Chris Marker. Volevo provare a parlare di Pascali svincolandomi dal pretesto narrativo, che di per sé comunque presentava delle caratteristiche peculiari: una doppia perizia effettuata in partenza, presso un magazzino a Roma, ed al suo arrivo al Museo. Fantasticavo sull’apertura delle casse che contenevano l’opera, un’operazione molto forte per la fantasia. Con questi elementi ho scritto un piccolo progetto un po’ astratto e ispirato al cinema che mi piace – in buona parte quello francese degli anni Sessanta. Due anni dopo ho consegnato Pino. In questo periodo dal Museo non mi hanno fatto pressioni di alcun tipo, sono stati una committenza eccezionale. Sono loro stessi degli artisti, dal presidente Giuseppe Teofilo fino alla direttrice artistica Rosalba Branà, sono bravissimi. Pino è stata un’esperienza di ricerca e esplorazione.

L: Hai citato Chris Marker, nome che, insieme a quello di Alain Resnais, salta subito all’occhio nei titoli di coda. Cosa ti ha ispirato di più delle opere di questi due autori così importanti per la storia del cinema?

W: Penso che nel momento in cui ti imbatti ne La Jetée, la tua vita cambia. Non importa se ci arrivi tramite L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam o per passione cinefila, l’incontro con il film di Chris Marker realizzato con immagini fotografiche in bianco e nero è sempre una splendida rivelazione. Il tema musicale del film, tra l’altro, è straordinariamente simile a quello di Ultimo Tango a Parigi e sappiamo quanto Bernardo Bertolucci si fosse formato sul cinema francese degli anni Sessanta. Pino si apre con una citazione quasi testuale de La Jetée  ̶  «Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine della sua infanzia»: nel nostro caso c’è una caverna, immagine primordiale che evoca un elemento chiave nella ricerca poetica e forse nell’anima di Pascali, e al tempo stesso ovviamente rimanda all’origine del cinema stesso (il mito della caverna). L’immagine del cosmo che apre il film è invece un omaggio a Dune di David Lynch, un altro cineasta al quale, come dire, siamo tutti vicini: soprattutto ora che è diventato anche una superstar dei social media (in grado di salvare le nostre giornate con le sue previsioni del tempo e le sue intuizioni meravigliose) dopo averlo fatto con i suoi film. Poi c’è Alain Resnais e il suo Hiroshima Mon Amour, ispirazione per la densità del bianco e nero, per l’utilizzo evocativo e lirico della voce fuori campo, da cui ho anche preso di peso alcuni elementi testuali. Ed infine la poesia di Rimbaud,  in cui ho trovato libere connessioni con le opere e la vita di Pino, mi ha permesso di volare molto in alto… o anche molto in basso, nelle profondità delle caverne e della galleria del Muro Torto.

L: È molto interessante il lavoro che fai con la narrazione in Pino, con le voice over che si alternano. Com’è stato coinvolgere e collaborare con i quattro artisti chiamati in causa (Suzanne Vega, Alma Jodorowsky, Monica Guerritore e Michele Riondino)?

W: Mentre scrivevo il fuori campo immaginavo che la narrazione dovesse essere in inglese. Mi sono formato, per mia fortuna, in un cinema cosmopolita, e quindi non ho mai pensato ad un cinema strettamente in lingua italiana. Pensavo che la voce dovesse essere di un’attrice inglese adulta, shakespeariana, mi piaceva l’idea di avere una narratrice onnisciente dotata di autorità “olimpica”. Poi le cose sono un po’ cambiate. Incontrando nel percorso i versi di Rimbaud ho pensato sarebbe stato insensato tradurli, ed è arrivato il francese, è arrivata Alma Jodorowsky, che oltre ad essere attrice, modella e regista è anche una musicista. E così l’idea della musica è entrata nel film ed ho pensato a Suzanne Vega, di cui comprai il primo disco (Suzanne Vega, 1984), proprio nel periodo in cui entravo in contatto con le opere di Pino in Pinacoteca a Bari, all’inizio del liceo. È stato un cortocircuito. La musicalità che lei ha restituito al fuori campo è incredibile, tant’è che alle volte andava quasi contenuta. Infine il contratto di cessione dei Bachi aveva senso rimanesse in italiano. Il film era diventato naturalmente poliglotta. E con la straordinaria partecipazione di Monica Guerritore e Michele Riondino, che interpreta Pino, si è completato l’orizzonte.

Pino documentario Walter Fasano

L: Passando al montaggio, mi è sembrato che la figura di Pascali venga fuori da una contrapposizione di due immagini chiave – il mare e la galleria -, più che da una classica giustapposizione di immagini. Da dove nasce l’idea di fondere in questo modo vita e opere dell’artista e, soprattutto, come si è sviluppato il montaggio del film?

W: Hai rivelato l’intento espressivo alla base della progettualità. Tutto questo risuonava in maniera talmente intensa per me che era quasi difficile verbalizzarlo quando cercavo di spiegare ciò che desideravo fare. Volevo creare una specie di continuum narrativo, un viaggio a cavallo delle diverse dimensioni temporali e che raccordasse liberamente spazi e tempi lontani fra loro. Lo scheletro rimane la vicenda biografica di Pino, ma la galleria del Muro Torto, luogo pericoloso, potente e tragico, raccorda avvenimenti, pensieri, emozioni. La caverna è il luogo magico e primordiale dove tutto inizia e finisce.

L: Insieme alle fotografie scattate direttamente da Pino Pascali ci sono quelle scattate da Pino Musi, che restituiscono una sorta di effetto di “film nel film”. Com’è stato collaborare il fotografo?

W: L’incontro con Pino Musi è stato magico. Inizialmente lui aveva difficoltà a pensare di essere diretto, vista la sua necessaria libertà espressiva. Però è stato molto naturale, perché per quanto mi riguardava quella libertà poteva mantenerla. Abbiamo ovviamente discusso di quanto stavamo facendo, per creare un orizzonte comune. È stato un bellissimo incontro, mi ha arricchito molto. Per prima cosa abbiamo fatto le foto nel Muro Torto, sotto il livello della strada, in maniera avventurosa. Tra l’altro quel luogo fa paura. Le macchine sfrecciano, e con il mio motorino mi sento sempre un po’ incerto. Pino dietro di me scattava foto in movimento. Poi abbiamo cercato dei punti di discesa e di accesso al tunnel, e lui ha scattato delle immagini meravigliose, evocative, tutto ciò che serviva per definire quel luogo come un tunnel multidimensionale. Il giorno dopo siamo andati a fotografare l’apertura delle casse nel magazzino. Io gli citavo il finale de I predatori dell’arca perduta. Farei cento altri lavori con Pino Musi, sono stato molto fortunato ad incontrarlo e la qualità visiva delle immagini originali è merito suo.

Francesco Gizzi: È inevitabile considerare Pascali come un artista concettuale, e guardando il documentario non possiamo non tener conto di scritti come quelli di Eco e le sue considerazioni sul concetto di “Opera aperta”, dove una parte fondamentale ce l’ha lo spettatore che ne fruisce. Fino a che punto, secondo te, un artista può rivendicare la piena paternità della sua opera?

W: La domanda che mi verrebbe da farti è: “Quanto è importante che ciò avvenga”? Per esempio da montatore cerco di dare sempre il massimo del contributo all’opera di altri. Il cinema è un’arte collettiva. Nel caso di Pino Pascali è più semplice: la creazione materica di qualcosa – la trasformazione di un materiale da uno stato ad un altro – è un fortissimo gesto creativo, anche quando si tratta di opere concettuali. Credo che nel mio caso Pino somigli molto a ciò che volevo fare, lo sento molto mio, ma ci vedo dentro tutti i contributi di chi ci ha collaborato e lo ha arricchito: le voci, le foto, il suono, la musica di Nathalie Tanner.

Pino documentario Walter Fasano Intervista

F: Spostandoci su un fronte più distributivo, dopo la presentazione a Torino e il passaggio in vari festival, Pino è arrivato su MUBI. Cosa significa aver raggiunto una piattaforma così particolare, regolamentata da una selezione molto rigida e contornata da atti critici di approfondimento, che ha reinventato il concetto di fruizione di un’opera in streaming?

W: È il più bel traguardo che il film potesse raggiungere. La partecipazione e la vittoria a Torino hanno allargato la platea del film. Tenevo particolarmente al fatto che il film non venisse visto soltanto come un oggetto museale, mi piaceva che potesse essere considerato un film, non solo un film d’arte. MUBI, piattaforma di qualità e ultimo riparo per chiunque cerchi cinema intelligente e non omologato, è una casa bellissima per Pino. Il film è visionabile assieme ai massimi autori del cinema di tutto il mondo, ricevo segnalazioni di persone che l’hanno visto in posti impensabili, cosa chiedere di più? 

F: In questo periodo abbiamo avuto modo di vedere in sala uno dei film probabilmente più attesi di questa stagione, America Latina. Com’è stato lavorare con i fratelli D’Innocenzo?

W: Mi sono divertito moltissimo a lavorare con Fabio e Damiano, che si sono dimostrati dei cineasti molto aperti al confronto. Non sapevo cosa aspettarmi e mi hanno sorpreso positivamente. Potrei dire che ci amiamo.

F: È amore, come recita la locandina.

W: Bravo! Mi hanno sorpreso. Ovviamente i gemelli hanno un’idea molto precisa di quello che fanno e che vogliono ottenere. Hanno però affrontato con attenzione e leggerezza il montaggio del film, senza la presunzione di sapere che film avremmo costruito, pur sapendo esattamente il film che volevano. Quindi hanno lasciato al montaggio la possibilità e lo spazio di creare. Siamo stati rapidi ed estremamente precisi. Le sessioni di lavoro erano intense, impegnative, entusiasmanti. La prima volta che abbiamo visto il film “in fila” è stata memorabile.

F: Essere montatore, come hai detto, significa essere al servizio ma anche metterci del proprio. Qual è la differenza tra il montare un proprio film e uno altrui?

W: È come passare il pomeriggio con tuo figlio o con il figlio di un altro, di cui ti prendi cura. Sono due esperienze diverse. Non vorrei montare i miei prossimi lavori, è un’esperienza eccessivamente solipsistica e quasi violenta nei confronti di chi hai attorno, perché vieni rapito completamente dalla tua opera. Mi piace molto montare i film degli altri, mi viene dato tanto spazio e non mi sento in alcun modo limitato nelle proposte creative sul da farsi, anzi pare che mi chiamino proprio per quello.

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.