Il pomeriggio della IV giornata della Festa del Cinema di Roma è stato un susseguirsi di film e incontri interessanti e seguitissimi. Non da meno è stato quello con Wes Anderson e Donna Tartt per la sezione Incontri Ravvicinati.
La fila per entrare è stata lunga, ma l’attesa ripagata.
Al suo ingresso all’Auditorium, infatti, Anderson si è concesso a quei (pochi) fan che hanno avuto il coraggio (o la sfortuna) di non essere in fila al suo arrivo, avvicinandolo con relativa facilità: il regista ha risposto a coloro che lo chiamavano a gran voce, concedendo foto e qualche autografo.
Ahimè, noi eravamo in fila, ad attendere di vederlo in Sala Petrassi; lui sul palco, noi in balconata. Lontano.
Wes Anderson e Donna Tartt sono entrati presentati, come di consueto, da Antonio Monda, Direttore della Festa. Da subito si sono mostrati più che collaborativi, rispondendo in maniera articolata alle domande di Monda e concedendo quattro domande (una in più del previsto) al pubblico adorante.
Il tema dell’incontro riguardava il cinema italiano e il dialogo tra linguaggi differenti. In onore delle due grandi lingue parlate dagli ospiti: letteratura e cinematografia. Donna Tartt, scrittrice americana vincitrice del Premio Pulitzer per la narrativa 2014 con Il Cardellino, ha selezionato per il pubblico di Roma quattro scene da altrettanti film italiani da lei amati. Il quinto film è stato scelto da Wes. Ma andiamo con ordine.
Sullo schermo della Sala compaiono i volti protagonisti della Medea di Pasolini (1969). A Donna questa versione piace molto, soprattutto perché lontana dalla tradizione. La versione degli anni Sessanta è lenta, disomogenea, non particolarmente leggibile da chi non ha avuto precedenti contatti con la storia di Medea. La versione pasoliniana è quasi un film horror, è molto violenta. Il film tende a sottolineare la barbarità del contesto (assente nelle rappresentazioni classiche) e si discosta dal peplum hollywoodiano accostandosi più al documentario, con un ritmo lento, incomprensibile per la produzione e il pubblico di oggi. Anderson afferma di non aver mai visto il film di Pasolini, ma la scena appena mostrata ha un ritmo che lui definisce molto ipnotico. Di Pasolini Wes conosce altro: ha visto Teorema, La Ricotta (episodio del film Ro.Go.Pa.G.), I Racconti di Canterbury, Il Vangelo secondo Matteo.
La seconda scena scelta dalla Tartt è, sorpresa, la stessa scelta da Sorrentino il giorno prima, tratta da La Notte di Antonioni (1961). (E qui subito la domanda: ma vi siete forse parlati? No, è una coincidenza). Secondo la scrittrice questa pellicola presenta scene bellissime, tra le quali ha avuto difficoltà a scegliere. Ha amato il film, le sue architetture moderne così belle e la sua «dark quality»; inoltre la passeggiata le ricorda molto le processioni di Piero della Francesca; non c’è film migliore che tratti la solitudine, afferma. Il primo film di Antonioni che Anderson ha visto è stato L’Avventura (1960) quando aveva 19 anni. Con lui, sostiene, ha deciso di fare il regista.
Dei registi italiani Wes cita Fellini (che fu, per lui, una sorpresa minore de L’Avventura) e Bertolucci, grandi artisti che hanno avuto risonanza mondiale. Ma forse il più internazionale di tutti è Antonioni.
Dopo l’applauso generale arriva il momento della combinazione dei linguaggi cinematografico e letterario. Per Donna Tartt il film e il suo valore visivo hanno avuto una grande importanza; andava sempre al cinema e uno dei suoi film preferiti è Psycho di Hitchcock.
La domanda, girata ad Anderson, ha risposta affermativa: il cinema in generale è (ed è stato) fortemente influenzato dalla letteratura. Secondo il regista, quasi il 60% dei film realizzati è un adattamento da un testo letterario. Nei suoi lavori questo accade spesso; è anche il caso di Grand Budapest Hotel. La sua tecnica, però, consiste nel prendere spunti da diverse opere, facendo suo il testo. La risposta si conclude con una valutazione personale del regista (che la Tartt condivide): difficilmente i libri migliorano se tradotti sullo schermo; poco sono gli esempi riusciti, tra cui The Shining.
Per quanto riguarda, invece, gli autori letterari italiani che hanno influenzato l’opera di Donna Tartt, la scrittrice cita Dante (da lei studiato all’università) e la sua estrema modernità.
La terza scelta è la scena d’apertura de La Signora di Tutti di Ophuls (1934), regista tedesco, cast e produzione italiane. Le ricorda Sunset Boulevard: la vita narrata per flashback mentre la protagonista è morta, nel film americano, e sottoposta ad una operazione chirurgica alla quale non sopravvivrà nell’opera di Ophuls. Un film con lunghi slow-takes, molto moderno, soprattutto se si pensa all’anno di realizzazione. Il film (poco conosciuto) la scrittrice l’ha scoperto perché è un’amante di Lola Montès e ritiene che ne sia un precursore.
L’ultima scena è tratta da La Grande Bellezza di Sorrentino (2013): sì, proprio quella. La scena dei fenicotteri rosa…
Il film la Tartt lo ritiene molto «transporting», con magnifiche scene notturne e personaggi complessi e profondi. Voto finale: «Gorgeous in every way». Di un parere affine Anderson, che ha amato il film. Lo collega (ovviamente) a La Dolce Vita, e adora il viso di Servillo, musa di Sorrentino, lo ritiene molto emozionante. Ma del regista italiano Wes ha amato soprattutto Le conseguenze dell’amore.
Ci si domanda perché il poco successo del film in casa e la buona accoglienza all’estero. La risposta di entrambi gli ospiti è: «Sometimes the films are better if you don’t speak the language». Esempi? Io sono amore e Deserto Rosso.
E ora la parola al pubblico.
Le domande? Tutte per Wes e non sempre smart, ma capiamo l’imbarazzo di rivolgersi a tale regista.
Due le più interessanti: Hai mai pensato di fare film horror o di Natale? La risposta: «Non ho mai pensato di combinare i due generi. (Risate del pubblico) Con i film horror o thriller si deve tener conto degli obblighi dovuti al genere, è un po’ complesso. Con i film di Natale si può fare fortuna. Ogni anno.» (Platea in visibilio)
Ti ritengo molto creativo. Come nutri la tua creatività? Risposta: «In due modi. Innanzitutto, noi tutti passiamo gli anni ad assorbire cose che poi trasformiamo: leggiamo libri, guardiamo film. Ma non è mai abbastanza. L’altra cosa che mi ha aiutato è stato il fatto che la mia generazione ha avuto giovani colleghi e mentori; abbiamo formato gruppi con all’interno persone che potessero guidarci e supportarci.»
L’incontro si conclude con una clip scelta da Anderson tratta da L’oro di Napoli (De Sica, 1954). Scoperto dal regista americano solo pochi anni fa, lo ritiene un film grandioso. Dopo aver definito Totò «italian Buster Keaton» e aver raccontato un piccolo aneddoto relativo all’assenza di uno degli episodi del film quando lo rivide in Portogallo (e qui interviene Monda in soccorso della folla: l’episodio “Il funeralino” per motivi commerciali fu tolto dal film per essere successivamente reinserito), Anderson definisce il film di De Sica «a series of masterpieces» e lascia la sala alla visione della scena prescelta. Il pubblico vorrebbe trattenerlo. Non si può, devono andare.
Tra lo sconforto di tutti, l’incontro termina e la scrittrice e il regista lasciano la sala. Le luci si spengono. Negli occhi dello spettatore rimane una macchia marrone, in ricordo del completo di Wes.