Un po’ di thriller, un po’ di eros, una Nicole Kidman che veste panni inediti: ingredienti perfetti per elevare l’hype. Uno dei titoli più attesi di questa edizione della Mostra d’Arte Cinematografica porta la firma di Halina Rejin. Babygirl avrà confermato le aspettative?
La protagonista è Romy (Nicole Kidman), CEO di una prestigiosa azienda, con una vita lavorativamente frenetica ma che comunque le lascia spazio per dedicarsi alle figlie e al marito. Con quest’ultimo ha un legame tenero ma smorzato. Fin dal principio i loro incontri sessuali vengono mostrati come fallocentrici: Romy davanti all’altro sembra non avere coscienza del proprio desiderio, se lo gode in solitudine, tappandosi la bocca, chiudendosi al buio, quasi vergognandosi dei propri gemiti.
Quando Samuel (Harris Dickinson), un giovane stagista, entra nella sua azienda, Romy comincia a sperimentare una inesplorata vulnerabilità: quella di delineare all’altro il proprio piacere e la via per arrivarci. Avvolgendosi in una danza impacciata, i due si annusano, si svestono delle loro reticenze e aprono all’altro l’accesso alle più tormentate fantasie sessuali che li scuotono. Babygirl è un film sul potere. Il potere che la protagonista prova a detenere in tutti gli ambiti della propria vita (fatta eccezione proprio del sesso), il potere che un giovane uomo esercita così facilmente su di lei.
Nonostante la messa in atto del desiderio non sia anticipata da una reale e percepibile creazione dello stesso, la regista ha avuto una sorprendente capacità di restituire un’esplorazione sessuale in grado di divertire. Oltre al sesso, tutta una serie di tematiche vengono alleggerite da un velo di ironia che calza perfettamente, al momento giusto.
Ma, Babygirl, è davvero un film femminista-progressista? Sì e no. Sicuramente abbatte tutta una serie di stereotipi legati al masochismo femminile, ma lo fa cadendo in cliché. È davvero rivoluzionario nel 2024 proporre una sequenza in cui si spiega ad un uomo di mezza età che le donne possono godere quando scelgono coscientemente di essere assoggettate? Forse siamo già oltre per questo. Si dà per scontato che sia necessario esplicitare allo spettatore determinate tesi. Per tutto l’arco del film si sottolinea reiteratamente, spesso in maniera retorica, come non ci si debba mai vergognare delle proprie fantasie sessuali. Ma, portando avanti la storia di una donna che combatte tutto il tempo con i propri desideri e che alla fine rinuncia alla sua fonte primaria di piacere, non si sta involontariamente restituendo il messaggio inverso?
Romy sembra lasciarsi trascinare dagli eventi senza capacità di reagire, si fa cullare in un tepore vittimistico colmo di responsabilità che scarica e inebrianti incontri sessuali che sembrano strapparla completamente alla ragione. Non è di una protagonista passiva che avevamo bisogno, ma di una donna in grado di reclamare la propria libertà sessuale e farlo anche, e soprattutto, quando tale libertà coincide con quella di farsi consensualmente dominare. Sarebbe stato interessante assistere alla lotta interiore di una Romy divisa tra il potere che sa esercitare nella vita e quello che decide coscientemente di non esercitare nel sesso. Ma così non è stato.
Babygirl, infatti, lascia in bocca il gusto amaro di un’occasione mancata, un’occasione che aveva tutto il potenziale per essere colta con più coraggio. Forse il coraggio c’è anche stato, ma è sbiadito sotto il peso delle aspettative e della sostanziosa portata delle tematiche “calde”. Gli elementi erotici e quelli impercettibilmente thriller si uniscono in una confusione un po’ stantia di “già visti” e non conferiscono al film un’identità definita. Probabilmente ci dimenticheremo fin troppo presto di Romy e dell’esplorazione del suo piacere.