#Venezia80: The Wonderful Story of Henry Sugar, la recensione del corto di Wes Anderson

The Wonderful Story of Henry Sugar, la recensione del corto di Wes Anderson alla Ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.

Parlando del cinema di Wes Anderson si rischia quasi sempre di risultare ridondanti, riferirsi allo stile registico del cultore massimo dell’immagine simmetrica è ormai quasi insolente. Quello che è l’autore esteticamente più riconoscibile del cinema contemporaneo ha già forse detto tutto riguardo il proprio stile, l’ha già dichiarato esaustivamente rimanendo coerente a sé stesso e alla propria visione sempre e comunque, nel bene e nel male. Wes Anderson è simmetria, staticità (dinamica) , narrazioni pastellate quanto le immagini del mondo sgargiante e fiabesco che costruisce con minuzia fin dagli ultimi anni 90′. È proprio la coerenza stilistica ciò che rende Anderson un Autore con la a maiuscola, l’autore più commerciale di tutti, è vero, forse anche il meno investito da un naturale processo artistico fatto di correnti, di rinnegazione e di risposta divergente alla propria idea poetica, ma anche per questo il più cannibale e monopolizzante un topos fotografico prima e cinematografico poi che ormai pare appartenergli, quasi assoluto detentore della simmetria, quasi fosse marchio registrato che puoi citare o plagiare, mai farne uso.

In un mondo costituito da ferree convenzioni, retto da leggi insindacabili che diventano la conditio sine qua non della propria esistenza concreta e solida, rigido proprio al fine di renderlo alternativa valida alla realtà, al realismo, al racconto naturalistico, Wes Anderson ha poco spazio di manovra per la sperimentazione visiva. Deve allora giocare con la narrazione, scomporla e sottometterla alle regole del proprio universo senza però rinunciare a riflettere sulla sua natura, e facendolo riesce persino a dar vita a qualcosa di inedito nella propria produzione. Con The Wonderful Story of Henry Sugar (trailer), Fuori Concorso alla Ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, il regista texano innova e si rinnova tornando alle origini del cinema, gioca e sperimenta con la forma riapprodando al teatro filmato delle origini, all’artigianalità degli scenari, alla concretezza dei fondali dipinti che cambiano e si evolvono e vengono catturati mentre lo fanno.
Anderson sceglie di adattare un racconto di Roald Dahl contenuto nella raccolta The Wonderful Story of Henry Sugar and Six More, sa che l’estrosità e la bizzarria dei personaggi dipinti dallo scrittore britannico ben si presta all’assurdità che il regista conferisce ai suoi. L’argomento lo suggerisce il titolo: Henry Sugar è un parassita, vive di gioco d’azzardo, spolpa amici facoltosi. Scopre per caso che un uomo è riuscito nell’impresa di vedere tenendo gli occhi chiusi, di visualizzare qualsiasi cosa si proponesse in barba agli ostacoli visivi. Henry Sugar deve prendere la palla al balzo ed assimilare la stessa facoltà sfruttandola per accumulare ricchezze.

È quasi documentaristico il nuovo cortometraggio targato Wes Anderson, lo è nell’esplicita intenzione di non escludere il dietro le quinte, di rivelare la mano dei tecnici (impersonati dagli stessi interpreti del racconto fittizio) che aprono, tirano su e disfano le scenografie, lo è perché mostra la realizzazione mentre avviene. Ed è veloce, incalzante come mai avrebbe potuto essere in un lungometraggio (nonostante la dinamicità del racconto sia cosa assodata nel cinema andersoniano). Qui il formato si piega al contenuto, è lo stesso Anderson a rivelarlo: l’idea era quella di mettere in scena il racconto di Roald Dahl, il cortometraggio ne è la diretta conseguenza. E proprio la durata (40 minuti) consente al regista di “concentrarsi sulle parole, sul modo in cui vengono pronunciate”, sul linguaggio adottato dallo scrittore britannico e riproporlo così com’è, ma con un’estensione visiva, con un commento recitato, con il racconto che succede, viene visualizzato mentre chi ne è protagonista si fa al contempo narratore e personaggio. Un’operazione che avrebbe di certo un esito diverso se ad interpretare il tutto non ci fossero attori versatili e ambivalenti come Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel e Ben Kingsley, che è retta ed elevata (al netto di una narrazione qui totalmente asservita alla forma) proprio dalle star feticce di Wes Anderson, capaci indistintamente di essere comici e drammatici. Con The Wonderful Story of Henry Sugar, Wes Anderson si interroga sui modi di raccontare attraverso il mezzo cinematografico, sulla possibilità di rimanere coerente alla propria poetica esasperandola e portando all’estremo l’artificiosità, svelando adesso esplicitamente l’estetica funzionale e omaggiando con una esercizio di stile fine a sé stesso, un cioccolatino non scartabile ma squisito, il cinema del passato.

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