L’ombra di Hitchcock. Una lettura di Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943)

«Si parla tanto del bello che è nella certezza; sembra che si ignori la bellezza più sottile che è nel dubbio. Credere è molto monotono, il dubbio è profondamente appassionante.»

(Oscar Wilde)

Un’iconica immagine promozionale di “L’ombra del dubbio” (“Shadow of a Doubt”, Alfred Hitchcock, 1943)

Si è più volte affermato che L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt, 1943) (trailer) fosse per Hitchcock il prediletto fra i propri film. A dire il vero, la predilezione del regista è stata variamente attribuita di volta in volta a questa o quella pellicola, a seconda delle fonti di riferimento: sovente, oltre che a L’ombra del dubbio, questo privilegio è stato assegnato a Notorious – L’amante perduta (Notorious, 1946), La congiura degli innocenti (The Trouble with Harry, 1955), e perfino a La donna che visse due volte (Vertigo, 1958).

Non vi è dubbio che dietro ciascuna di queste ipotesi, per quanto sterili possano essere, ci sia un fondo di verità (e d’altra parte ciascuna di esse si basa su qualche affermazione del director). Per La donna che visse due volte la forte partecipazione emotiva ed artistica che Hitch aveva profuso nella sua realizzazione, per La congiura degli innocenti l’utilizzo di quel tipo di umorismo inglese molto apprezzato dal regista, per Notorious l’enorme soddisfazione per la resa tecnico-visiva del film e la sua coerenza narrativa, e così via…

Circa L’ombra del dubbio, è accertato che il cineasta inglese avesse un debole per questo suo film. Ciò è dovuto soprattutto alla maggiore verosimiglianza che si respira in questa pellicola rispetto alle altre del regista. Infatti, la collaborazione con il celebre autore teatrale Thornton Wilder, reso celebre dalla commedia Piccola città (Our Town, 1938), fu particolarmente sentita ed apprezzata da Hitchcock (tanto che lo scrittore meritò un riconoscimento speciale nei titoli di testa del film), perché gli permise di ambientare la propria storia in un ambiente credibile e aderente alla realtà di una vera cittadina di provincia americana. Questo fece sì che il film venisse accolto positivamente anche da quei critici che solitamente tacciavano le pellicole hitchcockiane di inverosimiglianza, con molta soddisfazione del regista.

Riportiamo adesso, a beneficio dei lettori che la ignorassero, la trama del film nel riassunto che ne fornisce François Truffaut:

«Ricercato da due uomini, Charlie Oakley (Joseph Cotten) si rifugia a Santa Rosa, in famiglia. Qui ritrova la sorella maggiore, il cognato e la giovane nipote che si chiama Charlie come lui (Teresa Wright); questa, malgrado l’affetto e l’ammirazione che nutre per lo zio Charlie, lo sospetta poco a poco di essere il misterioso assassino di vedove che la polizia ricerca. I suoi sospetti sono rafforzati da quelli di un giovane detective (Mac Donald Carey) che, con il pretesto di un’inchiesta su scala nazionale, viene ad indagare nella casa. Un altro sospetto, all’Est, muore dilaniato dall’elica di un aereo mentre sta per essere arrestato dalla polizia. Il caso è archiviato ma lo zio Charlie, sapendo che la nipote è al corrente della sua colpevolezza, tenta per due volte di sopprimerla nella casa, poi una terza sul treno che lo riporta a New York; questa volta è lui che cade nel vuoto e muore stritolato da un altro treno che arriva in senso opposto. A santa Rosa gli fanno solenni esequie. La giovane Charlie è la sola a conoscere il segreto dello zio Charlie e lo dividerà con il detective.»[1]

L’ombra del dubbio

«Oh, sì, certo. Gli ho fatto mille domande. Rammenta tutto con una precisione sbalorditiva, come se fosse veramente lo zio Ira. Ma, Miles… in lui non c’è emozione. Niente. Finge di provare qualcosa. Le parole, i gesti, il tono della voce: tutto è identico. Ma non il sentimento. No, ne sono certa: non è mio zio Ira.»

(L’invasione degli ultracorpi)[2]

Probabilmente, fra tutte le grandi narrazioni di città o famiglie americane corrotte da un elemento alieno presenti nella cinematografia della vecchia Hollywood, L’invasione degli ultracorpi è la più radicale. Non solo il “Male perturbatore” mette piede in uno dei nuclei dove l’american way of life fa il proprio corso, ma pian piano si impossessa dell’intera città (che per sineddoche è ovviamente l’America tutta), sostituendo ai legittimi abitanti di Santa Mira degli involucri privi di emozioni, pronti ad estendere la conquista al resto degli Stati Uniti e del mondo. Pare che nelle intenzioni della produzione la chiave con cui vada letto questo film sia un’allegoria dei pericoli del comunismo. Interpretazione forse restrittiva e sempliciona, ma probabilmente congeniale.

Ma torniamo indietro di tredici anni, e dallo zio Ira passiamo allo zio Carlo (Jospeh Cotten) de L’ombra del dubbio. Esaminiamo il modo in cui esso ci viene presentato all’inizio del film.

«Trascorsi i titoli di testa che contrappongono una festa danzante, il film avanza…

  1. «Trascorsi i titoli di testa che contrappongono una festa danzante, il film avanza…
  2. Mentre sullo schermo, complice il valzer della Vedova allegra, permangono ancora per qualche istante le coppie ballerine, la macchina da presa inquadra, in campo lungo, le arcate di un ponte (Pulasky Skyway Bridge, New Jersey) sotto il quale scorre un fiume (Passaic River). […]
  3. La panoramica sinistra-destra prosegue. Ora, il campo è lunghissimo. Laggiù sullo sfondo, distinguiamo il ponte “intero”. In primo piano, una discarica con carcasse d’auto. Dissolvenza.
  4. Campo Medio. Periferia urbana (la città dovrebbe essere Philadelphia). Una strada qualunque. Alcuni adolescenti giocano a softball. Stacco.
  5. Campo Medio. Un ragazzino robusto arriva correndo mentre un coetaneo riceve la palla e un attimo dopo la perde. All’unisono, entrambi schizzano veloci fuori quadro. Dissolvenza.
  6. Campo Medio. Sul portone d’ingresso di una casa spicca il cartello «si affittano camere». L’occhio punta il numero civico. È il 13. L’immagine, precisiamolo, è vistosamente inclinata. Dissolvenza.
  7. Primo Piano. Una finestra dello stesso edificio. L’inquadratura risulta ancora sbilenca. Dissolvenza.
  8. Interno giorno. Un’anonima stanza ammobiliata. Un uomo riposa disteso sul letto. Il travelling avanti percorre la tratta piano medio/mezzo primo piano.
    Zio Charlie è completamente vestito. Occhi socchiusi; sigaro acceso tra le dita. Il giaciglio è disposto in diagonale rispetto al movimento citato. La luce che filtra attraverso le tende (c’è un’unica finestra) disegna ombre irregolari su oggetti e persone. E investe una parete, la testiera del letto, il cuscino il volto di Cotten. Un altro particolare non trascurabile: l’arietta modesta che invade il tutto. Un momento, manca ancora un dato. Lo sguardo di Oakley fonde l’estasi (contenuta) con la concentrazione (semisolida).
    Esaurita la marcia, la camera effettua una panoramica destra-sinistra per identificare, in dettaglio, un portafogli (lì accanto c’è un comodino) dal quale fuoriescono delle banconote.
    Senza fratture, e restando sempre in piano ravvicinato, la mdp diserta l’arredo e scende verso il pavimento. Sul tappeto scorgiamo una disordinata mazzetta di dollari. Stacco.»[3]

Introdotto il primo Charlie, con uno stacco la scena si sposta a Santa Rosa, per introdurre Charlie Newton (Theresa Wright), la giovane Carla.

«1. Campo lunghissimo. Santa Rosa vista dall’alto. Decifriamo tutto e niente. Abitazioni di media stazza, aree verdi, edifici pubblici. Dissolvenza.
2. Campo Medio. Ci troviamo sul corso principale della small town. Un incrocio importante con il classico agente regola-traffico. Alcuni pedoni attraversano la strada. In primo piano, sfrecciano (non esageriamo) le automobili. Stacco.
3. Mezza figura. L’agente colto nelle sue funzioni: cinquant’anni circa, aria bonaria. Dissolvenza.
4. Campo Medio. Un quartiere residenziale come tanti. L’esterno di una villetta monofamiliare. Sulla destra, un albero rigoglioso. Dissolvenza.
5. Campo Medio. Il medesimo stabile osservato un po’ più da vicino. Qualche passante sfila davanti alla mdp. Dissolvenza.
6. In primo piano una finestra della casa. Nessun segno particolare, salvo il fatto che l’immagine è leggermente distorta. Dissolvenza.
7. Interno giorno. Carrello avanti dal campo medio alla figura intera. Siamo nella camera di Charlie 2. La giovane è sdraiata sul letto; tiene gli occhi aperti; il capo è appoggiato sull’estremità sinistra del fotogramma. La luce passa attraverso le tende creando un gioco d’ombre che tocca/coinvolge la testiera e (siamo sicuri?) pure il volto di Teresa Wright.
Il letto è collocato diagonalmente rispetto al percorso della cinepresa. Da citare, inoltre, una brezzetta che “disperde” (senza però insistere) le immagini. Stacco.»[4]

In effetti queste immagini sono eloquenti. Quello che il cineasta inglese sembra suggerirci, è che Carlo e Carla sono due facce della stessa medaglia, una diabolica e l’altra angelica, che si compenetrano. Basti pensare al numero di inquadrature loro dedicate, 7 per entrambi, e al modo in cui vengono presentati. Entrambi sdraiati su di un letto, presentanti come se fossero in cattiva salute, sfiniti e stanchi della vita. Cosa più importante, tralasciando il gioco di ombre che appare sui loro volti, sembrano richiamarsi l’uno all’altra tramite la posizione delle teste. Quella di Carlo Oakley sembra “sigillare” il lato destro dello schermo, quella di Carla il lato sinistro. Come se volessero in qualche modo richiamarsi l’un l’altro, tramite quella speciale “telepatia” che sembra contraddistinguerli. O come se entrambi fossero tormentati dal sentore di un vicino incontro.

Oakley è astuto e apparentemente assennato. Ma è debole: nella sua stanza ad inizio film ci appare alla stregua di un animale ferito e spalle al muro, senza via di scampo. Eppure, con un ultimo colpo d’ingegno, scova una via di fuga e vi si getta a capofitto. In treno non lo vediamo, ma celato dietro una cortina nera vediamo un fattorino che gli chiede della sua salute, e lo sentiamo affermare di essere debole. E in effetti scendendo dal treno ci appare estremamente debole, tanto che la stessa Carla rimane momentaneamente perplessa.

Ma Carlo, vedendola, sembra come riprendersi e riacquistare forza e vigore. In effetti Carla osserva: “pensavo che stessi male”, al che Carlo: “Male?” (con un’aria sinceramente interrogativa), e di nuovo Carla guardandolo meglio: “Ma non è vero”. Lo zio Carlo, arrivato a Santa Rosa lasciando dietro di sé una corposa scia di fumo nero, sta male per davvero o finge? La domanda è spinosa ed ambigua, doppia, come tutto il film.

Inizialmente, lo abbiamo visto sinceramente depresso, in un momento in cui non aveva bisogno di fingere, se non per la padrona di casa o per sé stesso (ipotesi poco probabile). È vero che lo abbiamo visto temporaneamente ripresosi quando decide di inviare il telegramma alla sorella a Santa Rosa, ma non è improbabile che una volta ritornato nella sua stanzetta, i propri personali incubi abbiano ripeso il sopravvento, gettandolo nuovamente nello stato semi-catatonico già visto in precedenza.

Ma ha altrettanto senso che egli finga di stare male per giustificare il non mostrarsi in pubblico sul treno. Treno che appena partito lo rende libero di tornare ad essere sé stesso. O è il contatto con Carla che gli ridona vitalità? Per un film che si vanta di essere realistico, probabilmente ipotesi paranormali seppur suggestive come quest’ultima sono da bandire. Ma quanto può essere realistico un film in cui i due protagonisti sono stretti in un legame telepatico? Ma poi lo sono davvero, o è solo suggestione (e auto-suggestione?).

Non pago di quanto abbiamo già esposto più sopra, Hitch mette subito in scena un nuovo motivo di inquietudine quantomai sottile ed ambiguità altrettanto ricercata. La più piccola delle due sorelle Newton, Anna, sembra inizialmente non riconoscere lo zio Carlo, ma a una domanda diretta su questo risponde che sì, si ricorda di lui, “ma ti trovo diverso”. In cosa consista questa diversità, non è dato saperlo. Così come non è dato sapere cosa la piccola Newton sappia o abbia intuito dello zio Carlo. Durante il film numerose sono le situazioni in cui Anna sembra sapere, o – ripetiamo – almeno intuire (forse inconsciamente) qualcosa dello zio. In questo caso in primis, ma anche quando afferma di non voler più sedere accanto allo zio, o le frecciatine che gli lancia quando questi cerca di far sparire le prove facendo una casetta di carta col giornale. Ma non dilunghiamoci: ci torneremo.

Dicevamo dell’ambiguità. Tutte queste scene dal sapore ambiguo a livello di dialogo, sono accostate dal regista ad inquadrature di una pacatezza e solarità che, se si bloccasse un fotogramma, si potrebbe incorniciarlo e porlo come ritratto di famiglia in casa Newton. Dunque le domande che possono sorgere nello spettatore sono in parte scacciate visivamente dall’aria di allegra riunione di famiglia (Hitchcock, da piccolo, si divertiva ad osservarle senza mai intervenire o pronunciare una parola). Per ora anche l’ammirevole colonna sonora di Dimitri Tiomkin (ricordiamolo: uno dei più importanti compositori di colonne sonore ad Hollywood all’epoca, e diverse volte collaboratore di Hitchcock prima del sodalizio con Hermann) sembra voler sottolineare quest’atmosfera rassicurante e familiare, quasi rustica.

L'ombra del dubbio
Edna May Wonacott, Patricia Collinge, Charles Bates, Joseph Cotten e Henry Travers in “L’ombra del dubbio”

Giunti a casa Newton, il regista londinese ci regala una delle più belle scene di ritrovo che la storia di Hollywood ricordi: campo lungo, colori chiari, immersione nella natura, dialogo affettuoso e brillante… Senonché, ad un certo punto, in sottofondo la colonna sonora ci ripropone lo stesso valzer che avevamo già ascoltato durante i titoli di testa: La vedova allegra di Franz Lehàr. Come rileva il Cremonini:

«In L’ombra del dubbio l’altrettanto celebre valzer della Vedova allegra diventa un vero e proprio leit motiv, minaccioso, sinistro, ma anche parodico, proprio perché legato al tema dell’uccisione di vedove più o meno allegre da parte di Joseph Cotten[5]

Con tale musica in sottofondo, lo spettatore non può che avvertire una certa stortura rispetto a quanto vede in superficie, permanendo in lui appunto un’“ombra del dubbio” su quanto la pellicola in quel momento vorrebbe propinargli. Tanto più che lo zio Carlo ad un certo punto sembra farsi per un momento stranamente cupo e assorto. Ma l’allegra famigliola non gli dà tempo e modo di prolungarsi in tale stato d’animo. Va evidenziato anche che, allo scopo di rendere il tutto più realisticamente, Hitchcock ricorre, soprattutto grazie ai due bambini, alla tecnica della sovrapposizione dei dialoghi, all’epoca usata molto raramente ad Hollywood, in quanto costituiva una difficoltà per il montaggio sonoro, e anche per il doppiaggio nei paesi d’esportazione.

La famigliola di Santa Rosa si trova a tavola: lo zio Carlo è ancora bello e buono, e mostra la sua prodigalità offrendo dei munifici doni alla sua famiglia: ai bambini, al cognato, e soprattutto alla sorella, cui regala anche un ritratto dei loro genitori. Sono tutti felici, l’idillio non accenna a sgretolarsi, e lo zio Carlo è più amabile che mai. Carla, dal canto suo, è talmente soddisfatta di tutto ciò che non vuole il suo regalo: che presenta il pericolo che può turbare la sua felicità è un’ipotesi affascinante che proponiamo, ma senza crederci fino in fondo. Probabilmente l’intento dell’autore è unicamente quello di mostrarci la bontà e il disinteresse della fanciulla.

Tuttavia lo zio Carlo si arma del suo fascino ed il suo impeccabile sorriso, e raggiunge Carla in cucina. Qui ha luogo una strana scena, piena di ambiguità (ma d’altra parte questo è il film delle ambiguità). Le posizioni dei due protagonisti assomigliano a quelle di due che si corteggiano, o forse invece a quella di un predatore e di una preda. Lo zio Carlo, come dicevamo, sicuro di sé (è ormai lontano il tempo in cui giaceva catatonico su di un lettaccio), appoggiato al muro con le mani dietro la schiena, e Carla, con lo sguardo semi-abassato, dall’altra parte della stanza che armeggia con degli strofinacci.

Carlo Oakley sembra osservarla per la prima volta: “Sei una ragazza strana, Carla” le dice. È un apprezzamento, un tentativo di comprenderla meglio, una provocazione? Forse tutto ciò, forse niente di ciò. All’atteggiamento interrogativo dello zio, Carla ne contrappone uno invece più assertivo: “Io e te non siamo solo zio e nipote”, dice; “Io ti conosco”, aggiunge. Su di lei l’“ombra del dubbio” non è ancora calata, sembra guardare ancora il mondo con la prospettiva di un’ingenua fanciulla di provincia. Difatti, se la prima affermazione possiamo accettarla, la seconda per il momento è ancora certamente falsa.

Ma si presti attenzione ad una cosa: senza quasi che ce ne accorgessimo, Hitchcock ha ribaltato i ruoli: ora è Carla che avanza verso lo zio spigliata e sicura; zio Carlo invece sembra di nuovo una bestia braccata, come all’inizio del film. Nel momento in cui Carla afferma “E oltretutto io penso che in te c’è qualcosa che nessuno sa” la camera si muove in avanti, e sembra quasi relegare Carlo nel suo angoletto, in cui probabilmente si sarà istantaneamente sentito spinto dalle parole della nipote.

Poi si riprende, e scioglie la propria tensione con una risatina ed un’affermazione “Non conviene scoprire i segreti altrui”, che col senno di poi può suonare come una minaccia velata verso la nipote. Frattanto Carla continua con la tiritera del “siamo gemelli noi due”, vero leit motiv del film: Hitchcock, visivamente e verbalmente, ce lo suggerisce continuamente. Dopodiché Carla prosegue “Dobbiamo conoscerci” (riteniamo che qui si vogliano anche evocare le sfumature bibliche del verbo “conoscersi”). E in tutta risposta Carlo le dice “Dammi la mano”. E qui c’è una stupenda scena di “nozze”: sulle note de La vedova allegra Carlo infila l’anello al dito della nipote, e il legame fra i due raggiunge la propria apoteosi: “Qualsiasi cosa venga da te è bella”, dice Carla.

Apoteosi che dura poco: subito dopo Hitch inserisce il primo elemento destabilizzante: all’interno dell’anello è inciso qualcosa. Ci sono delle iniziali, che non sono quelle dei due Charlie. Carlo vorrebbe farle cancellare, ovviamente per eliminare le tracce di un delitto di cui quell’anello è un ricordo (“Non si tiene mai il ricordo di un delitto”, ammonisce saggiamente Hitchcock in un altro film[6]), ma Carla decide di mantenerlo così com’è (importante narrativamente nel prosieguo del film). E Carlo esce di scena mentre la musica de La vedova allegra assume un tono più spettrale e le coppie danzanti dei titoli di testa compaiono sullo schermo in sovrimpressione fino ad occuparlo completamente.

Nella scena successiva vediamo Carla canticchiare un motivetto di cui non riesce a ricordare il nome. Inutile dirlo: è La vedova allegra. Il valzer sembra essersi trasmesso da Carlo Oakley a Carla Newton per lo stesso principio telepatico con cui a inizio film si sono richiamati a vicenda.

L’ambiguità con cui è costruito il film di Hitchcock è decisamente efficace: tutti gli elementi presentati vanno a formare un patchwork in cui è difficile identificare delle chiavi interpretative più penetranti di altre. Eppure il valzer di Lehàr sembra poterci essere d’aiuto in tal senso: nel momento in cui lo sentiamo, capiamo che qualcosa nella mente dello zio non sta funzionando come dovrebbe.

Non si capisce bene se sia perché egli stesso avverte questa cosa, perché pensa che meno si parli di vedove meglio è, o per qualche altra causa non meglio identificata: ma zio Carlo fa del tutto per depistare la famiglia che cerca di individuare il nome del valzer, e quando alla fine Carla capisce: “è La vedova allegra!” finge di rovesciare accidentalmente un bicchiere, ponendo fine di fatto alla conversazione.

Dunque questo valzer ne L’ombra del dubbio funge praticamente da “marchio”, è il segnale palese che Carlo Oakley porta su di sé della propria colpa. Tuttavia, per il momento nessuno, tanto meno la nipote, sembra essere in grado di decodificarlo (e a ben vedere rimarrà indecifrato anche alla fine del film).

Ne L’ombra del dubbio, dopo le scene descritte, se ne colloca una che Marchesini definisce come un flatus, ovvero una spiegazione apparentemente dotata di senso, ma che in realtà si tratta quasi sicuramente di un ennesimo tentativo di ingannare lo spettatore. Infatti, la signora Newton racconta che all’età di dodici anni, zio Carlo è andato a sbattere con la bicicletta contro un tram, e conseguentemente si è procurato un trauma cerebrale.

Si potrebbe ipotizzare che con questo episodio, Hitch abbia voluto fornirci una spiegazione pseudo-scientifica delle turbe mentali di cui soffre Carlo Oakley. In realtà non è così, e non bisogna lasciarsi ingannare: il vero significato di questo racconto si trova nelle forti connotazioni autobiografiche di cui è dotato questo film. In poche parole, l’incidente dello zio Carlo è identico ad uno che lo stesso Hitchcock ha avuto esattamente all’età di dodici anni: che il Maestro del Brivido voglia suggerirci che anche lui soffre di turbe mentali per la stessa ragione?

Ad ogni buon conto noi, più che su questo flatus che comunque ci siamo premurati di segnalare, dobbiamo concentrarci su un altro aspetto di quella scena. Infatti, veniamo a sapere che la famiglia Newton è stata prescelta come “famiglia tipica” (lo stesso motivo per cui l’ha scelta Hitchcock, no?) per un’inchiesta statistica. Nel pomeriggio arrivano i due incaricati, che suscitano subito la simpatia della famiglia Newton dando vita a simpatiche scenette, eccetto che lo zio Carlo, il quale viene fotografato dai due contro la propria volontà, e costringe il malcapitato fotografo a consegnargli il rullino.

La prima cosa a cui viene da pensare è che Carlo non voglia essere fotografato per non essere identificato come assassino delle vedove. Ma sappiamo anche che è dall’età di dodici anni che si preoccupa di non essere fotografato (l’unica foto che lo ritrae venne scattata subito prima dell’incidente), molto prima dell’età a cui verosimilmente risalgono i suoi primi delitti. Dunque è solo un vezzo di Oakley? Una conseguenza dell’incidente? Tutte queste cose insieme? Altro ancora?

Carla, dal canto suo, trova subito un feeling con il più giovane dei due uomini, e nel corso di una conversazione sullo zio Carlo gli chiede, quasi parlando a sé stessa “Vuol forse dirmi che non dovrei volergli tanto bene?”. A onor del vero, il giovane non aveva detto nulla di tutto ciò. Come è evidente, i due uomini non sono degli addetti ad inchieste statistiche, bensì due poliziotti, sulle tracce dell’assassino delle vedove allegre. E in un certo senso, sembra bastare la loro stessa presenza perché l’adorazione di Carla nei confronti dello zio vacilli.

Ma forse le cose sono più sottili di così. Il detective Graham avvia sin da subito un corteggiamento nei confronti della giovane Carla, e lei sembra ricambiare la simpatia del giovane. Per cui si può ipotizzare che quel “Vuol forse dirmi che non dovrei volergli così bene?” abbia un sottinteso più profondo. Carla sta mettendo in discussione il forte legame, che dicevamo probabilmente di natura sotterraneamente erotica, nei confronti dello zio. E verosimilmente, per il momento, non sta ancora costruendo nella sua mente l’idea dello zio come un assassino. Al contrario della Lina de Il sospetto (Suspicion, Alfred Hitchcock, 1941), la quale davvero crea nella sua mente una realtà completamente altra, Carla certamente intraprende, al contrario, un percorso di disvelamento della realtà effettiva. Tuttavia, è innegabile che questa realtà è lo specchio, in qualche modo, del percorso psicologico della fanciulla, che esce dall’adolescenza per entrare nell’età adulta.

A questo punto c’è una scena in cui la famiglia si trova riunita a cena. La signora Newton fa un accenno a delle “donne che si occupano della casa”. Ora, va detto che zio Carlo non fa che ripetere “mi piace la gente realistica”, “solo il presente conta”, “non bisogna guardare al passato” ed altre massime di questo genere.

Ma in realtà sembra che egli non faccia altro che fantasticare su un mondo migliore e guardare al passato. Infatti, non appena la signora Newton si lascia sfuggire quell’accenno, zio Carlo coglie immancabilmente l’invito, e si lascia andare alla nostalgica affermazione “Ci sono ancora donne che si occupano della casa?” e, ormai lanciato, si profonde in un’arringa contro le vedove “orribili, putridi esseri umani indegni di questo nome”, colpevoli di sperperare il denaro lasciato loro dai mariti, “bere champagne di marca, dare sontuosi banchetti e perdere somme al gioco. Spendono e spandono pensando unicamente ad accumular gioielli”. E arriva perfino a prospettare una “soluzione”: “Che cosa si fa alle bestie quando diventano troppo grasse e troppo vecchie?”. Si abbattono.

In fondo Oakley è un idealista. Vorrebbe un mondo diverso, migliore, ma ha scelto il modo sbagliato, forse non del tutto di sua volontà.

L’uditorio di Carlo Oakley sembra però essere sordo: zio Carlo per qualche momento “si assenta”, e lascia il posto all’assassino di vedove. Esprime tutto il suo odio verso il mondo (il mondo come lo vede lui) colpevole di essere ingiusto e sbagliato (più avanti lo definirà un “porcile immondo”), individuando i principali colpevoli nelle vedove. E solo Carla sembra rendersi conto di cosa stia realmente dicendo zio Carlo, come se in quel momento si fosse creato fra lui e il resto della famiglia una specie di filtro: avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, e gli altri l’avrebbero sempre recepita, tutt’al più, come dello spirito di dubbio gusto.

Anzi, è da sottolineare il gustoso paradosso di cui è protagonista il papà di Carla, che insieme ad Herb, il simpatico vicino di casa, si diletta a leggere storie di crimini irrisolti e ad architettare il “delitto perfetto”. E nonostante essi passino tutto il tempo a parlare di delitti, non hanno il minimo sentore di quanto sta accadendo nella loro stessa città, e anzi addirittura dentro la propria casa.

Quando i nervi di Carla cedono, inizialmente Oakley sembra mantenere la situazione sotto controllo, la raggiunge per strada, la trascina in un bar di nome “‘til two” (un altro riferimento al tema del doppio che domina tutto il film) e inizia “Carla, tu credi di sapere qualcosa”. Ma Carla non è così ingenua (e dopotutto ha in mano prove tangibili della colpevolezza dello zio) e non si lascia abbindolare facilmente. Allora zio Carlo perde tutta la propria sicurezza: alternativamente supplica, fa la voce grossa, si appella al loro essere uguali, minaccia… Ad un certo punto si perde in uno dei propri vaneggiamenti su quanto sia brutto il mondo, come un vecchio che perde il filo e inizia a rivangare i vecchi tempi. Insomma qui più che mai abbiamo la certezza che zio Carlo più che un killer utilitarista, sia un povero psicopatico.

Alla fine i due sono ormai di fronte casa Newton e zio Carlo ancora non è riuscito a cavare un ragno dal buco. Solo alla fine riesce a trovare la carta vincente: sua sorella, la madre di Carla. Se scoprisse la verità sull’amato fratello, o anche solo se questi partisse improvvisamente, ne morirebbe. Dunque Carla accetta di non dire nulla per il momento, a patto che lo zio, passato qualche giorno, parta. Insomma, Oakley non può giungere che ad un momentaneo compromesso.

Ne L’ombra del dubbio ad un certo punto Carla si fa carico da sola dell’incolumità della propria famiglia. È l’unica a sapere la verità sullo zio, ed in un certo senso si erge ad angelo custode anche dello stesso Carlo. Lei sa con certezza che Oakley è il vero assassino delle vedove, ma poiché i sospetti della polizia si concentrano anche su un altro indiziato, ella tace su ciò che sa, e davanti ai due poliziotti assume il volto della fanciulla speranzosa che l’innocenza del proprio parente venga riconosciuta. E dal canto suo Oakley non fa nulla di concreto per sviare le indagini: continua a condurre la vita del brillante uomo d’affari in villeggiatura presso la propria famiglia, e non fa altro che sperare.

Carla Newton, forse grazie anche alla “connessione mentale” (chiamiamola così) che ha con lo zio intuisce, percepisce, deduce, fino a quando tutto ciò non si trasforma in certezza: quando l’articolo di giornale scorre sotto i nostri occhi al suono de La vedova allegra.

In Hitchcock non è infrequente la figura della donna che protegge l’uomo che ama, figura che si intreccia solitamente a quella dell’innocente ingiustamente accusato (e di cui ne Il sospetto abbiamo un rovesciamento). Si pensi a titoli come Giovane e innocente (Young and Innocent, 1937), Io ti salverò (Spellbound, 1945), o Paura in palcoscenico (Stage Fright, 1950). Theresa Wright in L’ombra del dubbio sembra appartenere alla suddetta schiera, poiché nonostante si ponga in conflitto con Joseph Cotten, allo stesso tempo tenta di salvarlo dai sospetti (epperò in questo caso giustificati) dei poliziotti.

Oakley, al contrario, ad un certo punto sembra essere come colto improvvisamente da un raptus, e trasformarsi in una minaccia per la vita della nipote. Dacché era di buonumore per lo scampato pericolo, all’improvviso si blocca, si gira lentamente, e dalla sua postazione in cima alle scale osserva Carla, giù in basso, indifesa. Sul suo volto si può leggere abbastanza palesemente ciò che passa nella sua mente malata: Carla sa tutto, Carla è un pericolo, Carla va uccisa. Ma più che una risoluzione presa in seguito a delle valutazioni razionali, questo ha più l’aria di un impulso incontrollabile. Lo vediamo infatti, nella scena successiva, osservare fuori dalla finestra la nipote che conversa in giardino con il detective Graham, e le sue mani si contraggono, quasi involontariamente, sotto il potente e pressoché irrefrenabile impulso di cui è preda.

Ma avevamo già visto lo zio Carlo cedere, sebbene in forma più lieve, ad una specie di impulso omicida prima di questa scena: quando si trova con Carla nel locale “’til two”, e le sta parlando per dimostrare la propria innocenza, la grande confusione mentale che regna in quel momento nello zio Carlo, lo spinge a “strangolare” il tovagliolo. Ovviamente, Carla se ne accorge e lo guarda ancora più avvilita: egli se ne avvede e lo nasconde subito sotto il tavolo cercando di coprire l’incidente con una risatina e l’affermazione “Non essere così seria: tu ora stai pensando chissà che cosa”.

La presenza, ne L’ombra del dubbio, di una scena in cui zio Carlo tenta di ammazzare Carla sabotando lo scalino di una scala esterna della casa della famiglia Newton, è del tutto coerente con l’universo creativo hitchcockiano. Le scale sono un vero e proprio topos nell’opera del regista inglese: «Le scale come “messa in scena” di idee e sensazioni, come simbolo di un itinerario che provoca pericoli, mutazioni, violazioni dell’inconscio, visualizzazione di caratteri e preoccupazioni, anticipazione di prossime condizioni.»[7]

L'ombra del dubbio
Carlo tenta di ammazzare Carla sabotando uno scalino in “L’ombra del dubbio”

Dopo aver assistito a un secondo tentativo di omicidio (ricordiamo che in questo film tutto va a coppie), apprendiamo che zio Carlo ha deciso finalmente di lasciare Santa Rosa.

Il giorno della partenza, l’intera comunità di Santa Rosa si presenta a salutarlo, e alla stazione ci sono tutti (“dal commissario al sagrestano, con gli occhi rossi e il cappello in mano” come direbbe De André). Però Carlo, prima di partire, invita i nipoti compresa Carla a salire un attimo sul treno. Quando il treno sta per partire, egli trattiene Carla con una scusa, e questa rimane sul treno che parte.

Capiamo subito che il diabolico zio ha architettato un ultimo tentativo di eliminare la nipote. Ma quello che non ci aspettiamo è l’estrema deformazione a cui la figura dell’affascinante e amorevole zio è sottoposta in questo frangente. La voce si altera spaventosamente, i lineamenti si trasformano, il corpo assume sembianze ferine: sembra quasi che Carlo Oakley celasse un’altra entità al proprio interno che ora si è impadronita completamente di lui.

Ma Carla riesce con le proprie sole forze a prevalere su Oakley, e lo precipita giù dal treno proprio mentre sta passando un altro treno nel senso opposto: per lo zio è la fine, e una versione velocizzata delle coppie che danzano sulle note de La vedova allegra ce lo fa comprendere bene.

Dopo la scena con le coppie danzanti, abbiamo una veduta di Santa Rosa simile a quella di inizio film. Ma stavolta si sta celebrando un funerale solenne, ed è quello dello zio Carlo. Il sacerdote dice: “Santa Rosa ha perduto uno dei suoi figli migliori, e ha acquistato un figlio”.

Hitchcock non è americano, e questo è un nodo cruciale. Solitamente i registi americani nati in America tendono ad essere estremamente celebrativi (si pensi a Frank Capra, Leo McCarey, o Howard Hawks), mentre quelli nati fuori dagli USA riescono invece a cogliere le numerose contraddizioni del sistema americano, soprattutto nella commedia (si pensi a Ernst Lubitsch, Billy Wilder, Charlie Chaplin).

Perciò sir Alfred fa sì che l’inganno dello zio Carlo non venga scoperto. La famiglia, i concittadini, continueranno a credere per sempre che Carlo Oakley fosse un fratello amorevole e uno zio affettuoso. Solo Carla sa, e sente ora la necessità di condividere il suo segreto con il poliziotto con cui si fidanzerà e verosimilmente sposerà. Un poliziotto né particolarmente fascinoso né particolarmente brillante, che sostituisce un crudo realismo alle fantasie di Carla sul suo straordinario zio, che probabilmente continueranno a riproporsi anche dopo la morte di quest’ultimo. Ma quello che probabilmente Hitchcock vuole dirci è analogo a quanto ci ha già detto in Prigionieri dell’oceano (Lifeboat, 1944) a proposito del nazismo: “Non giudicate”. In fondo egli prova della pietà per Carlo Oakley, come la proverà per Bruno Anthony[8], come la proverà per Norman Bates[9].

E sono le parole della stessa Carla in chiusura del film a darci la misura di quanto da carnefice, Carlo assuma ormai i connotati piuttosto della vittima: era preda di un mondo che gli pareva strano e malvagio, non era capace di amare nessuno, odiava tutti (e di conseguenza c’è un non detto: che nessuno lo amasse, che tutti lo odiassero), “non c’era felicità possibile per lui”. Ma, ci dice Graham in questo ambiguo finale: “Non è brutto come lui credeva”. Barlume del classico messaggio hollywoodiano, e non è forse un caso che sia proprio il personaggio più banale del film a proporcelo, quasi come un dazio da pagare.

Ma aggiunge poi: “Pare che il mondo a volte impazzisca del tutto, come tuo zio Carlo”; e ancora un sottinteso: “Ma agendo rettamente (ovvero secondo un codice di valori allora ben identificabile, oggi forse più sfumato) se ne esce trionfatori”. Carla non replica, e volge a terra lo sguardo in quello che appare come un grido muto ma lacerante: se sia liberatorio e di accordo con le parole del fidanzato, o se sia di dolore e in disaccordo con quest’ultimo, rimane avvolto dall’incertezza di un film che di certo ha poco o nulla.

L'ombra del dubbio
Il muto grido di Carla in “L’ombra del dubbio”

Tanto che, di tutto ciò che noi abbiamo detto, si potrebbe forse con un po’ di buona volontà dire l’esatto contrario.


[1] François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore Tascabili, Milano, 2009

[2] L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956), di Don Siegel

[3] Mauro Marchesini, L’ombra del dubbio – Cinque trame per Alfred Hitchcock, Edizioni di Cineforum, Bergamo, 1993

[4] Ibidem

[5]Cristina Cono, Giorgio Cremonini, Cinema e musica, Vallecchi Editore, Firenze, 1995

[6]Così Scottie ammonisce Judith/Madeleine ne La donna che visse due volte (Vertigo, 1958)

[7] Natalino Buzzone, Valerio Caprara, Robert A. Harris, Michael S. Lasky, I film di Alfred Hitchcock, Gremese Editore, Roma, 1992

[8] L’altro uomo: Delitto per delitto (Strangers on a Train, Alfred Hitchcock, 1951)

[9] Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, 1960)

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