#Venezia80: Ferrari, la recensione del film di Michael Mann

Ferrari

Dopo anni di ansiosa gestazione arriva al Lido Ferrari (trailer), biopic dedicato allo storico patriarca della scuderia di Maranello e diretto da Michael Mann. Giunge ammantato di attesa, complice da una parte l’aria quasi mitologica costruita intorno alla figura del protagonista, dall’altra la presenza di un cast di prim’ordine, uno dei pochi proveniente d’oltreoceano a poter presenziare alla 80° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

È il 1957, anno di snodo per la vita di Enzo Ferrari (Adam Driver), legato a doppio filo con quello della casa automobilistica fondata a suo nome dieci anni prima. La scuderia attraversa un periodo di profonda crisi, specchio di quella personale del suo patron: la perdita del figlio Dino, l’allontanamento dalla moglie Laura (Penélope Cruz), l’amore nascosto con Lina (Shailene Woodley) e la sua lotta per il riconoscimento del piccolo Piero. In mezzo le corse, l’impeto della gara, il richiamo alla vittoria come imperativo della casa, quella imposta ai piloti Peter Collins (Jack O’Connell), Piero Taruffi (Patrick Dempsey) e Alfonso de Portago (Gabriel Leone).

Le vicende personali della famiglia Ferrari corrono intrecciate alle imprese automobilistiche per tutta la pellicola, a sottolineare quasi l’osmosi tra l’uomo e la macchina, tra il nome e il marchio divenuto simbolo universale. Da qui l’utilizzo diffuso del montaggio alternato, la ricerca spasmodica del legame emotivo costruito intorno al rombo di un motore, il trasformare ogni curva e frenata in una questione di onore.

Eppure, come spesso accade ad alcune recenti esperienze cinematografiche, quando l’occhio americano si posa sul bel paese affiora sempre qualcosa che non va. Qualcosa di inesatto. Qualcosa di inautentico, forse addirittura di melenso. Un po’ come successo poco tempo fa con House of Gucci di Ridley Scott, con il quale i paragoni si sprecano. Entrambi vedono al centro la figura di un capofamiglia, volto e padre di un marchio chiamato a rappresentare il costume italiano nel mondo. Entrambi affidano poi a questo volto i tratti di Adam Driver, ormai abituato a costruire il posticcio accento italiano pur recitando in inglese.

Entrambi, infine, vorrebbero dipingere una grande saga familiare, intrisa certo di altri condimenti, ma ottenendo soltanto un semplicistico ritratto all’americana che tradisce uno sguardo rimasto indietro, ad un modo superato di raccontare le storie, ad un punto di vista – per quanto posato su una vicenda storica – che sa di polveroso. E non è un caso forse che dietro quello sguardo ci sia un regista in là con le generazioni (Mann o Scott che dir si voglia), più vicino all’epoca dei fatti che a quella degli spettatori.

È indubbio che alcune sezioni di Ferrari siano alquanto riuscite, specie quelle dedicate alle corse e alla ricostruzione minuziosa del mondo dei motori negli anni ’50. La rievocazione della Millemiglia, leggendaria corsa che attraversava lo Stivale, è forse l’unica sequenza in grado di costruire una certa tensione all’interno del film. Manca però la profondità nel rappresentare il dramma familiare, la veridicità dei personaggi che ne fanno parte. Manca, dicevamo, l’autenticità. Ed è un peccato che uno dei film più attesi della Mostra si limiti a parlare con voce così contraffatta.

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