L’ultimo paradiso, la recensione del film su Netflix

L’ultimo paradiso (qui il trailer) è un film del 2021, diretto da Rocco Ricciardulli e prodotto da Netflix in collaborazione con Mediaset. La pellicola vede tra gli interpreti Riccardo Scamarcio (qui la recensione del film Magari), Gaia Bermani Amaral e Antonio Gerardi.

La storia, ambientata in un piccolo paesino pugliese degli anni Cinquanta, segue le vicende di Ciccio Paradiso (Riccardo Scamarcio), un uomo che non accetta il proprio destino di bracciante e che invidia il fratello gemello Antonio (sempre interpretato da Scamarcio), il quale è emigrato al nord, lasciandosi alle spalle la terra nel quale è cresciuto. L’insoddisfazione di Ciccio è provocata anche dalle ingiustizie e dai soprusi di cui sono vittime i contadini, tiranneggiati da ricchi proprietari terrieri.

Il film vede nel cast tecnico e artistico il suo punto di forza, grazie alle prestazioni convincenti di Antonio Gerardi e di Bermani Amaral, oltre che del ben più noto Scamarcio. Dimostrando una grande versatilità, l’attore pugliese qui interpreta non solo il protagonista Ciccio ma anche suo fratello Antonio, incarnando perfettamente e contemporaneamente due personalità: quella del sofferente uomo di campagna che desidera fuggire e quella composta del manager d’industria emigrato a nord.

Probabilmente ispirato dall’ambientazione rurale, il regista sembra prendere come modello per i fratelli Paradiso i protagonisti di due film appartenenti alla commedia italiana ambientati in piccoli paesi di campagna. Si potrebbe scorgere in Ciccio Paradiso il fascino del protagonista di Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961) interpretato da Marcello Mastroianni e nel fratello Antonio la sensazione di estraniazione di Nino Badalamenti nel film Il mafioso (Alberto Lattuada, 1962), un supervisore d’industria meccanica stabilitosi al nord che torna nel suo paese natale in Sicilia per una vacanza, interpretato da Alberto Sordi.

Tra i due, particolarmente riuscito è il personaggio di Ciccio, tracciato in maniera chiara ed efficace: le scene d’amore, anche se ripetitive, mettono in luce la sua fermezza nel ribellarsi alle convenzioni sociali e, in particolare, alle regole matrimoniali. Simbolica è anche la scena in cui, parlando con sua moglie in chiesa, il protagonista mangia un’ostia presa dal cenacolo senza farsi troppi scrupoli.

L’intreccio è abbastanza coinvolgente, ma alcune importanti vicende sono lasciate in sospeso, senza arrivare ad una vera risoluzione: ad esempio, non ci è dato conoscere le conseguenze e le misure che i padroni adottano a seguito delle rivolte contadine, nonostante il ruolo importante che esse giocano nel film. Anche le scene di dialogo sono poco coinvolgenti, mirate esclusivamente allo sviluppo della trama. Tuttavia, la vita semplice e quasi immobile del paese è rappresentata in maniera efficace, mettendo lo spettatore nella condizione di capire il sentimento di soffocamento che affligge Ciccio.

I costumi sono un riflesso fedele della condizione di povertà in cui i contadini versavano, fedeltà che invece manca nella rappresentazione della cultura e degli usi dell’Italia meridionale in cui le faccende domestiche e il lavoro nei campi non sono mostrati se non in un’unica, breve scena sconnessa dalla narrazione. La fotografia riesce a far risaltare in modo convincente i colori delle campagne pugliesi ma le inquadrature – per la stragrande maggioranza piani americani – non rendono giustizia alla bellezza del paesaggio.

L’ultimo paradiso è nell’insieme godibile e si concentra maggiormente sulla tensione tipica di chi nasce in campagna ed è attratto dalla vita di città, invece che sulle ingiustizie subite dai braccianti meridionali che tanto hanno dovuto combattere per conquistare una minima parte dei diritti che per tanto tempo gli sono stati negati.

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