VENEZIA75 – THE OTHER SIDE OF THE WIND

“Gli amici lo paragonano ad Hemingway, e somiglia un po’ all’attuale John Houston. Ma ovviamente, in termini più pratici, altro non è che Welles”.

Così recita un articolo sul The Guardian dell’ultima ora (a firma di Peter Bradshaw) a proposito del megalomane protagonista del film – vera punta di diamante della Mostra del cinema di Venezia 2018 – ovvero The other side of the wind, il celeberrimo film incompleto (e non l’unico) di Orson Welles girato tra il 1970 e il 1976, ultimato nel montaggio da Peter Bogdanovich, grande amico, biografo e “intervistatore” del regista americano: “Se dovesse succedermi qualcosa finiscilo tu” intimò a Bogdanovich e così è stato.

In un’edizione della Mostra affranta dal clima incerto e dalla pioggia (nonché dal matrimonio di Fedez e della Ferragni a ridosso delle giornate di apertura) la proiezione del lungometraggio inedito di Welles ha saputo creare un perfetto bilancio tra ruvida attesa cinefila e sorpresa del pubblico. Piene le proiezioni, avvantaggiate dall’imminente distribuzione del suddetto film su Netflix (che ne ha acquisito la piena titolarità dei diritti). Circostanze che hanno dato il giusto riconoscimento a quello che averebbe dovuto essere l’8 ½ del regista di Quarto potere (ma con una differente concezione dello spazio e del mondo della riproduzione filmica).

L’Hemingway di cui parlava Bradshaw è appunto Jake Hannaford (J. Huston), regista americano che dopo anni di soggiorno in Europa decide di fare il suo ritorno in terra natia alla grande con un progetto ambizioso, assurdo, un film estremo, carnale, violento, non canonico. C’è spazio per ricevimenti all’interno della sua abitazione, elogi di amici, ammiratrici, ma la realizzazione del film va avanti a singhiozzi (come davvero è andata quella del lungometraggio stesso), martoriata da incertezze, battibecchi con gli attori, con i collaboratori e gli stessi estimatori di Hannaford. Per l’anteprima del film, che non si svolge nella residenza del regista come previsto, ci si sposta tutti al drive-in (emblema del consumo cinematografico americano). Qui Welles ci concede di vedere come dovrebbe finire il film, la sua protagonista perennemente nuda (Oja Kodar) vaga in un deserto dove strane architetture e forme geometriche che le cadono addosso sembrano, crollando e ricomponendosi, rimandare alla natura sgrammaticata del film stesso.

Come già accennato non si tratta di un film finito, ma allo stesso tempo non incompiuto. Montato solo in parte da Welles stesso, Bodganovich ne ha filologicamente ultimato la struttura, sebbene evidentemente discordante (100 bobine di girato non sono facili da assemblare!).Ma a prescindere dalle incoerenze nel ritmo del montaggio, la grandezza e l’assurdità di The other side of the wind sta proprio nella sua volontà molto ricca di elementi di sceneggiatura, scelte di movimenti di mdp, uso del colore alternato al B/N.Una conformazione dello spazio diegetico a tratti incoerente e indecifrabile dovuta proprio alla frammentarietà della produzione diventa con estrema coerenza la carta vincente del film, che non sembra essere debitrice a nessun cinema sperimentale e a nessun “autore” del Grande Cinema. Nessun odore di Godard, Griffith, Antonioni o Angelopoulos. Solo lo stesso Orson Welles: citazionismo, autobiografismo e riflessioni sullo stesso mezzo cinematografico/metacinematografico, il più wellesiano possibile. Lontani gli anni del sogno di cittadinanza italiana e delle notti di Via Veneto, il regista americano nel periodo a cavallo tra Storia immortale e F come Falso voleva confermare con questo film la sua necessità, non solo di concepire la macchina del cinema come un artificio metafisico e scientifico (assumendosi anche tutti i rischi che questo comportava), ma anche di rendere le sue opere catalogo di stili e molteplicità di stratificazioni espressive.

Proprio per via della sua stridente eterogeneità stilistica e formale The other side of the wind può essere ancora una volta denominato un “labirinto senza centro” come sosteneva Jorge Louis Borges parlando di Quarto potere. In fin dei conti, quella “grammatica per immagini” che dal tramonto del cinema muto sembrava (a detta dei critici) non essere mai più stata raggiunta. 

Ora anche il pubblico di Netflix potrà riacquistare lo stupore degli spettatori di decenni lontanissimi visionando “l’ultimo film di Orson Welles”.

di Gianmarco Cilento

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