La sala professori, la recensione: un’analisi sull’immagine

la sala professori recensione

La sala professori (trailer), candidato agli Oscar 2024 nella sezione miglior film internazionale per la Germania, rientra nella categoria di film ambientati in un’area ben definita, con confini netti, che, però, gradualmente, si espande decisa, finché quel limite imposto non collassa. In questi giorni riecheggia nelle nostre menti la tagline pubblicitaria del nuovo Apple Vision Pro: « fonde perfettamente i contenuti digitali con il tuo spazio fisico », col nostro spazio fisico, col nostro microcosmo. E così apriamo finestre su finestre che fissiamo in punti specifici dell’ambiente, realizzando un super esteso, sconfinato, Times Square personale e futuristico. È qui che la realtà muta fino a farsi realtà 2.0. E il film, di queste grandi finestre che diventeranno (definitivamente?) digitali, ma che al momento sono tangibili, ne è pieno. Schermi metaforici che dilatano i limiti dello sguardo, attraverso cui i personaggi scrutano (insieme, ma individualmente) il susseguirsi delle situazioni.

İlker Çatak percepisce il cambiamento, il senso di fruizione collettiva contemporanea e rende la sala cinema, una sala professori. Carla Novak (Leonie Benesch), giovane insegnante al primo incarico, registra col proprio portatile un video, cogliendo in flagrante uno dei tanti e frequenti furti all’interno dell’istituto scolastico. A farne le spese è soprattutto Oskar (Leonard Stettnisch), figlio della donna accusata e studente per cui Carla nutre un certo affetto, che diventa un bersaglio sia per i compagni che (subdolamente) per i professori. Sono tutti spettatori. Tutti. Anche Carla, che ha creato il contenuto, finisce per esserne sopraffatta, divenendo a sua volta colei che vede, come gli alunni, come i loro genitori, come gli altri docenti.

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Il video del furto salva nel tempo solo un gesto, un’azione, ma non un volto. È solo un dettaglio violento quello incriminato, un’inquadratura scomposta (ma basta il particolare?). È allora che si manifestano problematiche etiche e morali. C’è un momento nel film dove in noi sorge la domanda: ma chi ha davvero ragione? E a questa si amalgamano dinamiche odierne quali razzismo e libertà di parola, che sviano i nostri pensieri e le nostre convinzioni, stabili fino a poco prima. Come in Anatomia di una caduta o come nel cinema di Jafar Panahi, l’immagine viene analizzata nel tentativo di comprenderla: è testimonianza della realtà oppure una sua manipolazione?

«Quello che succede nella sala insegnanti rimane nella sala insegnanti». Ma non è vero. L’immagine ormai è virale, anche se nessuno l’ha vista, perché la realtà è specchio del video (e/o viceversa). Quindi, per continuare a lottare, un urlo, non di paura, ma come espressione di libertà, nella splendida scena in cui Carla invita i suoi studenti a gridare con lei. Allora quelle finestre non sono sinonimo d’espansione, ma, al contrario, schermi che danno solo l’impressione di poter vedere oltre. Sono una soglia che non può essere superata, i confini di una gabbia, così come anche il video, o come il 4:3 che accentua l’angustia profondità. Forse la scuola non è che un metaverso, un mondo in miniatura in cui vivono le attuali tensioni sociali e lotte generazionali. L’ultima inquadratura vive di una dualità di idee. È un atto di violenza perpetrato dagli adulti verso Oskar, ma, al contempo, è un gesto di vittoria e di libertà. Ha risolto il rompicapo e ora è libero dai confini.

In sala dal 29 febbraio

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