#Venezia79: Il signore delle formiche, la recensione del film di Gianni Amelio

il signore delle formiche

«Questo film è liberamente ispirato agli eventi dell’Italia degli anni ‘60». Inizia così Il signore delle formiche (trailer), il nuovo film di Gianni Amelio, il secondo di fila dopo Hammamet che affonda le mani sui densi eventi attorno a dense personalità adottando però una formula traversa. Perché già come in Hammamet il regista pare voler navigare di più nello spazio di quel “liberamente” che negli “eventi” che richiama a parole.

Per quello che riguardava la storia sul buen retiro del presidente Bettino Craxi sceglieva la chiave del confronto con un giovane intruso, mentre per Il signore delle formiche favorisce un racconto intimo dalle tinte quasi autobiografiche, una storia d’amore diluita nel lungo periodo in cui ha conosciuto gli alti e i bassi. Eppure a viverla non è una persona qualsiasi. È Aldo Braibanti (un sempre encomiabile Luigi Lo Cascio), esperto mirmecologo e intellettuale a tutto tondo, protagonista dal 1964 al 1968 del cosiddetto Caso Braibanti che lo vide accusato del controverso reato di plagio nei confronti del suo giovane amante e collaboratore Ettore (Leonardo Maltese).

Una faccendaccia tutta italiana, che ebbe incredibile eco sull’attualità dell’epoca per il modo in cui la legge, di matrice fascista, venne applicata in quella sola e unica occasione come strumento di repressione di un’omosessualità manifesta. Come detto, per Amelio Il signore delle formiche è però prima una storia d’affetti che di elaborazione di un contesto sociale e politico, che ancora una volta l’autore (in sceneggiatura assieme a Edoardo Petti e Federico Fava) si limita a suggerire, a porre sullo sfondo del teatro.

Il processo a Braibanti c’è, ma occupa una porzione della seconda parte di film che tra l’altro trasla sulla figura un po’ parziale del giornalista de L’Unità Marcello (Elio Germano), mentre per l’intera prima ora intesse il rapporto tra Aldo ed Ettore. Lo circoscrive all’interno di una cornice dove lo studioso emerge come figura enigmatica e anche problematica, uomo arroccato nella sua “Torre” che fa da polo culturale dove accoglie, e forse attira pure con il suo ascendente, molti giovani studenti. Nel controcampo ci sono Ettore e i tentativi della famiglia di spezzare a ogni costo questa relazione compromettente snocciolata con piccoli salti temporali tra il ’59, il ’60, il ’64, il ’68.

Qui Amelio ha un tocco molto delicato (bellissima la scena dell’ultimo incontro sotto un sole bagnato da una leggera pioggia) e anche onesto nell’intercettare le sfumature di un personaggio dalle molte angolature. Può quindi bastare accettare la storia d’amore in un film il cui protagonista è tale personalità? Probabilmente no, anche perché la già citata seconda metà si pone come un cinema istituzionale rigoroso, composto (dietro c’è anche Rai Cinema), le cui singole unità (la stampa, la religione, la legge) sono espressioni che devono essere presenti ma mai poste sotto occhio radicale, mai discusse nei violenti contrasti di cui la vera storia di Braibanti era ricca.

Un altro film che insomma parla a chi già sa, che della ciclica e infame violenza mossa nei confronti della comunità omosessuale prende il personale nucleo romantico tagliando di netto fuori una messa in discussione della cosa pubblica, della politica come contraddittorio strumento di offesa. È quello che all’ultimo dittico di Amelio manca, che ne mina la capacità di farsi fiamma sopra la scintilla, che non si discute nell’intima necessità individuale ma che pure si rifugia nella dimora di cristallo dopo aver appeso i manifesti.

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