Una spiegazione per tutto, la recensione: la maturità ai tempi di Orbán

una spiegazione per tutto, la recensione del film

La politica, a volte in modo esplicito ma molto più spesso in maniera invisibile e sotterranea, influenza i piccoli e i grandi traguardi umani. Abel (Gáspár Adonyi-Walsh) è costretto, suo malgrado, a fare i conti con questa realtà. Infatti, a partire dal suo fallimentare esame di maturità, il regista decide di inquadrare un tanto specifico quanto delicato momento politico, quello dell’Ungheria di Vicktor Orbán. 

Una spiegazione per tutto (trailer), che è valso al talentuoso regista Gábor Reisz il Premio Orizzonti a Venezia 80, è il racconto episodico di quella che avrebbe dovuto essere una settimana come le altre, esame a parte, ma che invece è destinata a scindere l’intero paese. Abel, introverso e distratto liceale, trascorre i giorni che precedono l’esame di storia a fantasticare sul proprio futuro amoroso, ritagliandosi nel resto della giornata un abborracciato momento di studio. Oggetto del desiderio del ragazzo è la sua compagna di classe Janka (Lilla Kizlinger) che, però, dimostra di provare per lui una tenera amicizia piuttosto che un trasporto più intenso. A complicare le cose è l’emergere del suo malcelato invaghimento per il docente di storia Jakab (András Rusznák), un liberale ostile a Orbán che in un colloquio scolastico ha litigato con il padre di Abel, di posizioni decisamente più conservatrici. 

Abel, presentatosi all’esame carico di preoccupazioni e privo di un’adeguata preparazione, fa scena muta, situazione che lo conduce inevitabilmente alla bocciatura. Incapace nell’affrontare la rabbia e la delusione del padre, Abel lo convince che la presenza della coccarda tricolore sulla sua giacca, divenuta ormai simbolo dei nazionalisti, avesse portato il professore a metterlo in difficoltà. La circolazione della voce ed il conseguente articolo di una rampante giornalista di stampo governativo danno il via allo scontro

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La sceneggiatura molto dialogata ma mai eccessivamente verbosa, firmata Reisz ed Éva Schulze, ci restituisce magistralmente il solco di un conflitto tuttora insanabile. Infatti, a far da contraltare alle pulite e silenziose vie di una calda Budapest, è il suono delle urla sprezzanti che circola tra le mura domestiche, simbolo di una pericolosa incomunicabilità tra le diverse parti politiche del paese. Per questo, la regia tallona Abel che, nel tentativo di evadere dal senso di frustrazione che lo attanaglia, gira senza meta con la sua bicicletta. Il suo peregrinare incessante, poetico ma inconcludente sembra raccontare la condizione recente non solo dell’Ungheria ma di tutto il sistema europeo, incapace di porre un freno all’ultranazionalismo dilagante, spesso e volentieri agitatore attivo di pericolosi e compromettenti echi bellici.

Le contraddizioni che emergono dall’intreccio di vite e di esperienze palesa la tipica polarizzazione che caratterizza i paesi europei nell’epoca contemporanea. Una condizione che, però, l’Ungheria sembra patire più di ogni altro. Infatti, gli eventi tumultuosi che l’hanno caratterizzata nell’ultimo secolo, dalla spietata presenza nazista all’opprimente influenza sovietica, hanno lasciato ferite talmente profonde da rendere impossibile una coesione nazionale. Inoltre, oggi questa divisione si è maggiormente acuita a causa dello stile autoritario con cui Orbán amministra il paese, molto contestato anche a livello internazionale. 

Una spiegazione per tutto è sicuramente il film più sorprendente di Reisz, un’opera corale che, mescolando vita pubblica e privata, riesce a spaziare tra racconto di formazione, trattato politico e saggio morale. Un’esperienza travolgente e indimenticabile, come il finale sospeso che ci apre a un futuro tanto incerto quanto affascinante

Al cinema dal 1° maggio.

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