Capelli rossi, lentiggini, smilzo. Weasley? No, Wes Anderson.
Per l’esattezza Wesley Mortimer Wales Anderson. Il tipo alto, dinoccolato, che cammina come se fosse un astronauta atterrato sulla luna, goffo data l’assenza di gravità. Con papillon, cravatte e giacche colorate che si trovano facilmente a un mercatino delle pulci, Wes Anderson è diventato l’icona di chi delle solite atmosfere hollywoodiane non sa che farsene. È sempre composto, mai sgarbato. Non è semplicemente un gentleman di un’altra epoca. Lui viene da un altro pianeta (come Ziggy Stardust). La parola gossip non l’ha mai sentita il texano. Forse perché vive in un sottomarino lontano da tutto e tutti, o in una tenda fissata nel salotto di casa (gialla come accappatoio di Natalie Portman in Hotel Chevalier). Sembra che Wes guardi la vita attraverso una fotocamera, applicando ad ogni fotogramma un soffuso effetto flou: anestetizza i contrasti dell’immaginario reale, riducendo le imperfezioni degli esseri umani per renderli al contempo capaci di tutto e niente.
I cattivi non sono cattivi davvero, dicono i Cani. Ma anche i buoni non scherzano. Tutto inizia in Texas, Houston 1969. Primo piano di Anderson che rimane fisso nello spazio, sbattendo svogliatamente le palpebre e con in mano un quaderno e una matita. Sguardo in camera. Parte la voce narrante, fredda ma allo stesso tempo critica, che ci parla di uno studente della St. John’s School intento a scrivere un’opera per l’ormai inesistente teatro scolastico – forse anche lui con un basco rosso in testa alla Max Fischer, pronto a rimproverare le performance dei suoi attori con un megafono. Fine prima scena. Un tracciato bianco, animato, appare velocemente in verticale sullo schermo, alzandosi accanto alla figura di Wes. Cambia la scenografia come se fosse un cartellone pubblicitario, e tutto si sposta all’University of Texas dove al suo fianco compaiono tre fratelli. Uno biondo, uno bruno, e l’altro senza perso un dente, reduce da un attaccato di uno squalo. Ed è tra Hegel e Kant che si forma il sodalizio senza fine tra il regista e i fratelli Wilson, catapultati al Sundance Film Festival col primo cortometraggio, Bottle Rocket. Il corto piace, simpatico, e subito diventa lungo nel 1996, con l’approvazione del produttore James L. Brooks.
Arriva il turno di Rushmore, e arriva anche Bill Murray: padrino del cinema andersoniano, è il simbolo del classico personaggio cinico (ma non fino in fondo) caro al regista. Si plasma così l’eterno bilico di questa produzione made in Texas: una commedia su uno sfondo drammatico, magari anche famigliare. Siamo i casa Tenenbaum. Gene Hackman, bambini prodigio e topi dalmata spianano il successo del regista. Gwyneth Paltrow è quella depressa e con il dito di legno; Ben Stiller, l’ansioso con i ricci e il beagle e Luke Wilson, l’innamorato che gioca a tennis. Almeno due persone su tre hanno desiderato diventare un royal dopo la visione del film. E mentre il volume si abbassa sulle note di These Days, che accompagna l’iconico incontro tra Margot e Richie Tenenbaum, subito la musica sfuma su Françoise Hardy e gli amanti cambiano. Due bambini, impettiti, che sulla spiaggia scivolano in una danza che sembra svicolata dal ritmo di Le Temps De L’Amour, rimangono rigidi in una simmetria kubrickiana. Giocano, parlano e construiscono il loro Moonrise Kingdom. Un periscopio li osserva da lontano, tra le onde del mare. Ci infiliamo furtivamente all’interno per tubolare fino a raggiungerlo: rosso, il cappello dell’eccentrico capitano Steve Zissou, in cerca del raro squalo-giaguaro. Rosso, il pelo di Fantastic Mr. Fox. Rossa, la cabina del Treno per il Darjeeling e la collana di fiori di Adrien Brody. Quella di Jason Schwartzman – di collana – è rossa e bianca. Ed è subito rosa, come il Grand Budapest Hotel e la torta che Léa Seydoux stuzzica con il dito in Prada, Candy. È finita qui? I don’t know. I want go on adventures, I think. Not get stuck in one place. Ed è questo che ci auguriamo per Anderson.
Testo e illustrazione di Françoise Tenenbaum