La vita che volevamo, la recensione del film su Netflix

La vita che volevamo

Tratto dal racconto breve Der Lauf der Dinge dell’autore Peter Stamm, l’esordio alla regia di Ulrike Kofler è la nuova scommessa austriaca apparsa in sordina nel panorama cinematografico internazionale. La vita che volevamo (trailer), di cui la regista è co-sceneggiatrice con Sandra Bohle e Marie Kreutzer, è disponibile su Netflix dall’11 novembre.

Alice (Lavinia Wilson) e Niklas (Elyas M’Barek) sono una coppia di giovani sposi. Fedelissimi e innamoratissimi, soffrono tuttavia della mancanza di un figlio, che nonostante gli svariati tentativi, continua a non arrivare. Date le condizioni di forte stress e pressione psicologica derivati dalla frustrazione di non poter essere genitori, i due si concedono un meritato momento di relax in un verde e naturale resort in Sardegna. Qui faranno ben presto la conoscenza dei loro vicini, coppia di austriaci anch’essi, che insieme ai due figli si presentano come la fotografia di una famiglia perfetta; ciononostante non è tutto oro quel che luccica, e prima ancora di poterlo immaginare, la vacanza da sogno di Alice e Niklas si trasformerà nell’ennesimo scenario di frustrazione e mancanza di agio tra i due.

Quello che sembra essere il biglietto da visita dell’Austria per gli Oscar 2021 si presenta tutto sommato come una buona pellicola; tuttavia, potrebbe non essere abbastanza per la portata della Cerimonia hollywoodiana stessa per cui il film intende concorrere. Chiariamoci, il prodotto finale non è da buttare, altrimenti non ci sarebbero nemmeno i presupposti minimi per poter pensare di presentare il progetto al cospetto dell’Academy. Cerchiamo di capire nel dettaglio.

Il primo parametro valutativo che, senza lode né gloria, rende comunque l’esperienza estetica gradevole e meritevole di almeno una singola visione, è una regia ben presente ed equilibrata. Seppur priva di virtuosismi della macchina da presa e inquadrature curiosamente particolari, la resa generale risulta pulita ed essenzialmente asciutta, che va a conferire una più spiccata “classicità” allo stile cinematografico piuttosto che l’artificiosità adottata sempre più su larga scala. Peculiare in questo senso è la scelta di impostare la narrazione su due livelli costantemente sovrapposti, rispettivamente quello della coppia protagonista e i loro vicini di casa. La duplicità narrativa si esplica tramite il suono, nello specifico con la sovrapposizione dei dialoghi dei due protagonisti che dominano in primo piano la scena anche e soprattutto a livello visivo, e la presenza più in lontananza in sottofondo dei dialoghi dei personaggi secondari che si inseriscono nella cornice primaria. Più banalmente, molto spesso lo spettatore si trova ad osservare sullo schermo Alice e Niklas, mentre sente distintamente in sottofondo i loro vicini conversare in tutta tranquillità : il risultato ottenuto è pari a quello di uno split screen che nel caso proprio va a dividire l’azione  in più segmenti sulla base visiva, mentre in questo caso l’espediente utilizzato è di carattere uditivo.

La vita che volevamo

La Kofler ha optato per un modo di fare cinema piuttosto minimalista, incentrato sui micro-movimenti degli attori stessi; in questo modo uno sguardo in particolare di Alice, o un modo di Niklas di osservare il mare, diventano tanto rilevanti seppur discreti, quanto lo sarebbe stata una scena a carattere drammatico più eccessivo. La stessa scelta nelle linee attoriali però, rischia, ed è quello che effettivamente succede di diventare un’arma a doppio taglio. Nonostante la bravura e la presenza scenica degli attori, la recitazione in sé risulta in qualche modo sottotono rispetto alla tensione emotiva che i due personaggi dovrebbero provare in un quelle determinate circostanze, andando a determinare, insieme alla sceneggiatura troppo poco scavata nel profondo, un ritmo pressoché poco incalzante almeno per la prima ora di pellicola (su un totale di un’ora e mezza!), rischiando con buone probabilità di non conquistarsi l’attenzione dello spettatore che ha invece l’impressione che la storia tutta debba ancora ingranare la marcia, ma con estrema difficoltà, ciò tarda a succedere.

La resa tecnica, che presenta alcune defezioni come quelle sopraccitate, ne va a compromettere la resa generale di un prodotto che, maneggiato in maniera diversa, ne sarebbe potuto uscire come un qualcosa di somigliante a un Marriage Story di Noah Baumbach, per temi e impostazione narrativa. La vita che volevamo è infatti impregnato di un realismo disarmante, è una storia più comune che rara e di conseguenza, una storia di carattere quotidiano. Maestria degli apparati tecnico-artistici pertanto sarebbe risieduta nell’abilità di raccontare una storia ordinaria in modo straordinario, con qualche accortezza in più sul delineare l’intimità dei personaggi che dovrebbe essere l’unica e indiscussa protagonista della vicenda.

Andando per i titoli di coda quindi, La vita che volevamo è banalmente, ma non troppo, l’evolversi di una condizione di disagio interiore che inevitabilmente si riversa su terzi, è il frutto di un’impossibilità che si esplica nella mancanza di dialogo e comunicazione, dando vita a un prodotto finale estetico-narrativo connotato dalla presenza di silenzi e introspettive che giocano, a tratti in maniera eccessiva, con le aspettative dello spettatore. Il finale aperto, optato dalla Kofler nella sua prima regia, lascia lo stesso punto interrogativo scaturito dalla domanda che molti si stanno ponendo:  La vita che volevamo, in un modo o nell’altro, riuscirà ad arrivare alla meta tanto ambita degli Oscar 2021?

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.