The Cloud in Her Room, la recensione del film su MUBI

Con l’emergere della sesta generazione il cinema d’autore cinese ha centrato il proprio discorso intorno a due temi centrali: spazio e tempo. Spazio inteso come spazio urbano, che muta a gran velocità in ragione di un processo di urbanizzazione che finisce per cancellare ogni traccia del passato, influenzando anche le relazioni umane. Il tempo, che scorre incessantemente, e la necessità di cogliere i mutamenti nel momento in cui avvengono, che spinge in direzione della ricerca di una temporalità del qui e dell’ora. Questo non può che portare anche a una riflessione sulla memoria, storica e culturale, nel tentativo di ricostruirla e preservarla. Due temi centrali, dunque, ma anche la comparsa di un nuovo soggetto: frammentato, alla ricerca di una identità dissolta, che vaga senza meta e non si riconosce in ciò che lo circonda. È così che devi sentirsi Muzi (Jin Jing), protagonista di The Cloud in Her Room (trailer) disponibile su Mubi, opera prima in B/N della regista Zeng Lu Xinyuan, vincitrice di vari premi tra cui il Tiger Award all’International Film Festival di Rotterdam.

Muzi ritorna nella propria città natale, Hangzhou, ma tutto è cambiato («ogni volta che ritorno, sembra sempre più diversa di prima»). Dalla famiglia che si è disgregata (i genitori sono separati, il padre si è risposato e a ha avuto una figlia), a uno spazio urbano che sembra assumere le forme di un cantiere, con vecchi edifici abbattuti (eccole le tracce di quel passato che viene cancellato) e nuovi in costruzione. I rapporti interpersonali sembrano ostacolati da barriere insuperabili, a vigere è una condizione di assoluta incomunicabilità e di mancanza di fiducia, e persino le emozioni vengono allontanate e tenute a distanza («non voglio più innamorarmi, una volta basta», dice Yu Fei – Zhou Chen -, fidanzato di Muzi).

Se le vecchie generazioni sono incapaci di adattarsi alla velocità dei mutamenti cui va incontro la Cina, i giovani si ritrovano in una specie di limbo sospeso, dove i ricordi del passato si fanno sempre più evanescenti, il presente è un tempo subito che trascorre all’insegna della passività, all’interno del quale vagabondare senza meta, per restare alla fine sempre fermi e immobili, e del futuro non se ne vede neanche l’ombra. Quella di Muzi è dunque la ricerca di un senso di appartenenza, esplicitata dalla sequenza in cui la vediamo dentro una piscina, sott’acqua, in posizione fetale.

Se da un lato, quindi, Zheng Lu Xinyuan si affianca alle riflessioni tipiche del cinema della sesta generazione, dall’altro, la tendenza a privilegiare una dimensione più intima e interiorizzata l’avvicina a un altro regista emerso negli ultimi anni, Bi Gan: autore di un cinema meno politicizzato, che tende a trasfigurare il paesaggio in quello che si viene a configurare a tutti gli effetti come “luogo dell’anima” (ma ad accomunare i due c’è anche la scelta di utilizzare attori non professionisti e girare nella città in cui si è nati: Kaili, nel caso di Bi Gan; Huangzhou nel caso di Xinyuan).

Il senso di smarrimento di Muzi, così come il suo desiderio di uscire da quella condizione, vengono resi attraverso uno stile fortemente sperimentale. Si parte da una narrazione frammentata ed episodica, che riflette la mancanza di unità della protagonista con ciò che la circonda. Spesso vengono adottati campi medi con i personaggi posti ai lati dell’inquadratura a sottolinearne lo stato di precarietà e marginalità, oppure vengono inscritti in configurazioni visive che rimandano al senso di prigionia che provano (a venire alla mente è il cinema Yoshida Yoshishige, e da qui la risalita verso Antonioni è breve). Si assiste a un continuo alterarsi di inquadrature fisse, uso della macchina a mano, immagini virate al negativo, jump-cut (insomma, c’è anche la Nouvelle Vague) e ancora riprese realizzate per mezzo del cellulare.

Queste ultime finiscono per assumere una doppia funzione: da un lato sono riprese effettuate dalla protagonista stessa, spesso interviste, che rimandano alla volontà di documentare il reale e magari dargli anche un ordine attraverso il proprio punto di vista; dall’altro tendono però a escluderla dall’inquadratura e a relegarla nel fuori campo, ponendo inoltre una distanza tra sé e ciò di cui fa esperienza. Né manca la componente autobiografica, dato che la Xinyuan ha iniziato a girare proprio con un IPhone, sotto l’ala protettrice di Shekhar Kapur.

Peccato però che questo sperimentalismo (che fa molto film da festival, con referenze “alte” e ingombranti), finisca per soffocare le ambizioni di un’opera che, a detta della regista, non ha messaggi da veicolare ma momenti da condividere. È proprio questa condivisione che finisce per mancare, facendo aleggiare su tutto il film un alone di freddezza che lascia piuttosto indifferenti alle sorti di questi giovani vagabondi alle prese con una realtà che non concede punti di riferimento. E alla fine viene da chiedersi se sia stato il caso di seguire le deambulazioni dei personaggi per 100 minuti.

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