The Boogeyman, la recensione: un film perfetto da guardare a luci spente

the boogeyman recensione film

Il terapeuta Will Harper (Chris Messina) lotta per affrontare, o meglio per riconoscere, il proprio dolore, proveniente dalla prematura scomparsa di sua moglie. Inoltre deve crescere, da genitore single, le sue due figlie, l’adolescente Sadie (Sophie Thatcher) e la piccola Sawyer (Vivien Lyra Blair). Quando un uomo disturbato (David Dastmalchian) si presenta a casa di Will per un appuntamento improvvisato e parla di un mostro che ha ucciso i suoi tre figli, Will non gli crede e chiama la polizia. Nello stesso momento l’uomo si addentra nella casa e sembra che si uccida dentro un armadio. Tuttavia, quando Sawyer inizia a vedere ombre che si insinuano nel resto della casa, perennemente poco illuminata, diventa sempre più chiaro che potrebbe esserci del vero nella storia sull’uomo nero, raccontata dall’uomo misterioso.

In Host e in Dashcam, il regista Rob Savage esplora la paura nei suoi aspetti più contemporanei, utilizzando le modalità di narrazione tipiche del 2020, come le riunioni su Zoom. Con The Boogeyman (trailer), adattamento del racconto omonimo di Stephen King del 1973, Savage si rivolge a un horror decisamente più tradizionale. La produzione riprende un progetto avviato, prima che il mondo andasse in pausa, dal team di A Quiet Place di Scott Beck e Bryan Woods. Savage ci offre una storia di fantasmi incentrata sui valori familiari. Il ruolo dell’adulto che non capisce è assunto da Will, a cui viene ripetutamente detto che qualcosa di pericoloso e innaturale si nasconde dietro le porte socchiuse, ma è troppo distratto dai ricordi mostruosi per prendere sul serio i mostri reali – sempre un errore fatale in una storia di Stephen King.

Il racconto The Boogeyman parla del peggior incubo di un genitore: la morte dei propri figli, un tema caro a King (basti pensare a Pet Sematary o Cujo). Il film di Savage – che attinge alle lotte di potere nel cortile della scuola, tracciate da King in Carrie e Christine – parla anche di come delle ragazze reagiscono a una tragedia e a come lottano per metabolizzarla. Sadie e Sawyer subiscono entrambe bullismo da delle pari, che si dimostrano completamente incapaci di occuparsi di loro successivamente al lutto della propria madre. Non siamo però dalle parti di un dramma sull’elaborazione del lutto, ma in quelle di un film dell’orrore.

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Il racconto di King non è propriamente facile da adattare per il grande schermo: si tratta essenzialmente di un monologo di un uomo squilibrato al suo terapeuta, incentrato sulla creatura che ha ucciso i tre figli dell’uomo, quindi l’idea del film di prendersi diverse libertà si rileva più che mai una scelta saggia. Ciò non dovrebbe sorprendere i/le fan di King e delle sue versioni cinematografiche, poiché egli è un autore spesso difficile da tradurre in modo accurato e convincente sul grande schermo. Perciò è incoraggiante che gli sceneggiatori Mark Heyman (Il cigno nero) e il duo formato da Scott Beck e Bryan Woods (A Quiet Place) abbiano sviluppato la propria interpretazione del “mostro nell’armadio”, che suona più come un sequel del lavoro di King che come un maldestro tentativo di realizzare lo stesso studio del personaggio disadattato. In questo adattamento è Sadie la protagonista ed è la controparte di suo padre: la prima sembra incapace di lasciar andare la madre defunta, mentre il secondo sembra incapace di accettare il proprio dolore e di conseguenza quello delle proprie figlie.

Il regista Rob Savage si dimostra abile nel giocare con luci e ombre: il risultato è così efficace che non c’è da meravigliarsi che la casa di produzione abbia abbandonato l’idea di fare uscire il film direttamente su Hulu e lo abbia invece voluto distribuire nelle sale. I fantasmi notturni di Sawyer sono dominati dall’oscurità e la nostra prospettiva è impotente quanto la sua. Le luci in movimento e quelle lampeggianti fanno sì che le ombre scivolino e si fondano insieme, quindi non si è mai del tutto sicuri/e di ciò che si sta guardando. Il film ha diversi jump scare, ma di qualità, proprio perché giocano con ciò che si può solo intravedere nel buio – il vero protagonista del film.

The Boogeyman dura 98 minuti, che in alcuni momenti sembrano pochi e in altri troppi. Nonostante il film avrebbe richiesto un maggiore approfondimento dei conflitti dei personaggi principali, pur ben interpretati, quando funziona colpisce duramente. Ciò che funziona massimamente è il senso di pericolo in agguato e la giocosità provocatoria di un mostro, con il suo personale senso dell’umorismo. Teso e a volte un po’ cattivo, The Boogeyman è un film perfetto da guardare a luci spente.

Articolo di Ilaria Franciotti. In sala dal 1 giugno.

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