#RomaFF18: Palazzina Laf, la recensione del film di Michele Riondino

C’è un vecchio detto che recita “la fantasia non supera mai la realtà” e il film Palazzina Laf (trailer) sembra esserne la prova concreta. Per la diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, Michele Riondino racconta una storia vera scritta e diretta da lui stesso, la storia della palazzina più temuta della fabbrica ILVA di Taranto.

Siamo alla fine degli anni Novanta, per la precisione nel 1997. L’acciaieria più grande d’Europa è appena stata privatizzata da circa due anni ma le condizioni degli operai non sono migliorate: morti, feriti e malati aumentano giorno dopo giorno. Scioperi, proteste e volantinaggio sembrano non scalfire i dirigenti (uno dei quali interpretato da Elio Germano) che, anzi, hanno un metodo rodato per trattare i dipendenti “fastidiosamente” sindacalisti: l’esilio nella Palazzina Laf, dove trascorrere lunghe giornate lavorative a far nulla, in balia della noia, dell’isolamento e delle umiliazioni.

Riondino decide di far conoscere questo luogo surreale attraverso l’esperienza di Caterino Lamanna (interpreto da lui stesso), un addetto ai forni che, per allontanarsi dai fumi tossici e dalla fatica, è felicissimo di venire spostato nella palazzina maledetta. In cambio, dovrà essere gli occhi e le orecchie dei dirigenti, tenere sotto controllo i reclusi Laf, ancora combattivi e decisi a portare giustizia all’ILVA.

È proprio il personaggio di Caterino che dona equilibrio al film. Un racconto che sulla carta poteva rischiare di diventare terribilmente noioso acquista attraverso il carattere di Caterino toni comici ed agrodolci. In lui, nelle sue azioni, si intrecciano i dubbi di quell’Italia che non ha mai studiato, umile e che pensa solo a portare il pane a casa senza dare troppo nell’occhio. Ma cosa succede quando quell’Italia viene interpellata? Cosa succede quando gli si chiede se gli va bene fare quella vita di fatica? Quando gli si offre una buona posizione in cambio della sua moralità? Un cortocircuito.

Caterino non è in grado di scegliere, è immobile, un fantasma all’interno di quella Palazzina Laf, completamente in balia dei settantanove colleghi reclusi. La paura dei forni, dei fumi tossici e delle macchine, lo tengono ostaggio dei dirigenti che, senza battere ciglio, sarebbero pronti a rigettarlo in mezzo agli ingranaggi della fabbrica. Così rimane lì, ascolta i discorsi e, soprattutto, vede l’esaurimento dei colleghi che, sfiniti e privati della loro dignità, cercano di non impazzire in quella Palazzina.

Palazzina Laf è una storia di mobbing, il primo caso riconosciuto in Italia. È una storia degli anni Novanta che, però, grida alle generazioni del presente. Riondino, infatti, riesce attraverso questo film a far parlare tutti quegli uffici, quelle fabbriche, quegli operai e quei dipendenti che si ritrovano sotto scacco matto dai loro capi, dal bisogno di pagare l’affitto o un mutuo e dalla necessità di costruirsi un futuro. È difficile rimanere impassibili all’ascolto della lettera che i dipendenti della Palazzina Laf scrivono per denunciare le loro condizioni. È impossibile non riconoscere in quelle frasi i giovani cervelli in fuga che, proprio come i personaggi del film, vengono incatenati a condizioni lavorative inappropriate e umilianti per la persona.

Insomma, Riondino esordisce alla regia con una storia attuale, una storia vera, agghiacciante, nella quale racchiude tutto il presente: la precarietà, i contratti infiniti da stagisti, i laureati che emigrano e tutte le donne e gli uomini che, semplicemente, crollano, scendono a compromessi pur di poter avere una vita dignitosa. Palazzina Laf non è un film di cronaca, ma un film di denuncia che brucia negli occhi di chi lo guarda e dona coraggio a chi lo sa ascoltare.

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