#Venezia80: L’ordine del tempo, la recensione del film di Liliana Cavani

Cosa faresti se sapessi che il mondo sta per finire? Approfitteresti del tempo rimasto o rimpiangeresti quello perduto? L’idea alla base del nuovo film di Liliana Cavani, insignita nella giornata d’apertura di Venezia 80 del Leone d’Oro alla carriera, è di quelle semplici ma efficaci, di quelle che tra vaneggiamenti e catastrofismo sfiorano la mente di chiunque nel corso della propria vita. Ne L’ordine del tempo (trailer) il mondo è prossimo alla fine, Pietro (Alessandro Gassmann), Elsa (Claudia Gerini) e gli amici storici lo apprendono durante la festa di compleanno della donna. Enrico (Edoardo Leo) lo sa da tempo: è un fisico rinomato, studia Anaconda (l’asteroide che punta dritto verso la terra) da quando si è introdotto a tutta velocità nel sistema solare, ne conosce la forma serpentina e le dimensioni, sa che se colpisse la Terra l’umanità non avrebbe scampo. Il tempo scorre, le probabilità che accada aumentano e, sconvolto dalla rivelazione di Enrico, il gruppo di amici comincia a prendere coscienza di ciò che avverrà e a ripercorrere ciò che è stato. Una presa di coscienza che è insieme intima e collettiva, individuale nel lucido bilancio che l’approssimarsi della fine stimola e sviluppa, condivisa nel vortice di confessioni e segreti smascherati.

L’incombere di uno scenario apocalittico genera l’occasione per essere sinceri, per spogliarsi di corazze e demolire strutture protettive, per non permettere al tempo di scandire le scelte e di detonare le manifestazioni. E allora per i protagonisti è il tempo dei “non ho mai” e degli “avrei potuto”, di vomitare i “non detto” di una comunicazione sempre problematica e di pensare a come vivere gli ultimi momenti. Forse è meglio che il “sasso” precipiti e metta fine a tutto. Che lenisca le sofferenze, che non obblighi a continuare a scegliere, a volere, a fare. O forse bisogna lasciarsi trasportare dall’urgente necessità di anticipare i tempi, di far deflagrare quei sentimenti che con l’umana (e irrazionale) fiducia nella non-prossimità (che si traduce in non-certezza) della morte si mantengono in potenza, inesplosi in maniera permanente.

“L’uomo pensa che il tempo a sua disposizione sia infinito” ma l’avvicinarsi della morte, la sicurezza che avverrà, rivitalizza: è la certezza della morte, la spinta vitale più potente, ed Enrico e Paola lo comprendono presto, e non badano a convenevoli per tornare ad amarsi, per rievocare un amore sepolto che adesso, con la sabbia che migra, che risiede inesorabile nella parte più bassa della clessidra, viene riesumato, risboccia perché alla fine della corsa a mancare è il punto di partenza. Insomma Liliana Cavani sa che “a parte tirare fuori l’umanità c’è ben poco da fare” e chi non sa amare non può avere certezze. Con l’apocalisse vicina i sentimenti si liberano dai limiti censori, i segreti inconfessabili vengono a galla in un mare calmo, piatto, senza onde. L’individuo diventa espressione pura di sé, scardina le proprie imposizioni relazionali, diventa un essere sociale nuovo che non deve più pensare alla propria salvaguardia, alla propria autoconservazione.

Ne L’ordine del tempo la regista punta con forza sulla comprensività di chi non ha più nulla da rimproverare e rimproverarsi (perché la certezza della fine deresponsabilizza l’uomo e disinnesca le conseguenze delle sue azioni), sulla rassegnata calma di chi non può più agire per cambiare le cose, ma così facendo inciampa su una fatale monotonia narrativa, su una mancanza di conflitto che si traduce in una narrazione annacquata, priva di tensione e di ritmo. Ritmo che è elemento vitale per una storia che si sviluppa all’interno di uno spazio tanto circoscritto e che avrebbe piuttosto bisogno di una maggiore tragicità, di reazioni ed emozioni iperboliche, sconsiderate (in fondo è la fine del mondo). L’ordine del tempo rimane, dunque, un monito, un carpe diem poco elaborato, un invito ad approfittare di ogni momento, a ballare ed amare sulle note di Dance Me to the End of Love, a non pensare che il tempo non abbia fine.

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