#RomaFF18: Eureka, la recensione del film di Lisandro Alonso

Recensione di Eureka, film di Lisandro Alonso presentato in anteprima nazionale a #RomaFF18

Nove sono gli anni che separano Eureka (trailer) dal precedente capitolo della filmografia di Lisandro AlonsoJauja -, prossimo alla soglia dei trent’anni di attività. Presentato all’interno della sezione Première del settantaseiesimo Festival di Cannes, il titolo è stato selezionato per la Festa del cinema di Roma per far parte della categoria Best of 2023.

E proprio come Jauja – la pietra angolare del suo cinema -, Eureka ci accoglie in un quadro dalle stesse proporzioni (1.37:1, con le estremità arrotondate) – rivelazione diretta delle presunte intenzioni di natura fittizia del regista – cui fa da contenuto una storia dal sapore western. Le prime immagini seguono un capo indiano mentre intona, in riva al mare, dei canti popolari. Stacco. Fa il suo ingresso una delle due star del film, Viggo Mortensen, qui nei panni di Murphy, un pistolero sulle tracce della figlia scomparsa. Sul suo percorso una donna, interpretata da Chiara Mastroianni, lo guiderà alla scoperta del mistero. Il vecchio west messo in scena attraverso il bianco e nero, e una profondità di campo pressoché infinita, da Alonso più che popolato da fuori legge sembra essere una terra di nessuno: pomposo e caotico. Si susseguono spari, grida, battute lapidarie e l’attesa per la rivelazione della verità si confonde col tempo morto della narrazione. È lo spazio di un tempo mitico, ma sporcato e asciugato da un’ironia sottile.

Murphy avrà modo di trovare sua figlia, ma a quel punto saremo già fuori da quel mondo. Una breve carrellata a retrocedere ci svelerà la natura di quell’immagine: un film, un’opera di finzione trasmessa in tv che presto verrà interrotta da un annuncio speciale di carattere meteorologico. Siamo nel South Dakota, nello spazio della riserva di Pine Ridge. Alaina (Alaina Clifford) sta per uscire di casa, per affrontare il grande freddo e una lunga nottata a bordo della sua pattuglia; Sadie (Sadie Lapointe) si prepara per andare al campo da basket della comunità.

La quotidianità o la dura vita dei nativi oggi sono il fil rouge più esplicito che ci ricollega al Lisandro Alonso che tutti conosciamo (la trilogia composta da La libertad, Los muertos e Liverpool). In questa seconda parte – inquadrata a colori e in full frame (1.85:1; la fotografia è di nuovo stata curata da Timo Salminen, assieme a Mauro Herce) – Eureka diventa un puro racconto per immagini: attraverso le continue chiamate della centrale ad Alaina viene svelato un mondo in crisi, dove famiglie o presunte tali vivono in condizioni di profondo disagio. Più che legarsi ad un crescendo drammatico, scalzando di nuovo l’azione e la causalità, Alonso si affida ad inquadrature lunghe. L’istanza registica fa così emergere dallo sfondo i prodotti (gli esseri umani) che la vivono, rivelando nello stesso tempo la sua presenza allo spettatore. Sono gli spazi desolati, l’essere stati relegati (ma sempre assoggettati) ai margini di un paese dominato dal regime capitalistico, a fare di Alaina e Sadie ciò che ci viene mostrato. Non ci sono spazi per futuri campioni, come spera la giovane allenatrice di basket.

Ma di nuovo: nulla è fittizio o diretto discendente di un movimento nel tempo. Eureka non segue nessuna, o quasi, logica narrativa. È un viaggio infinito di “eccessi” (per dirla con Francisco Boringole) e di deviazioni continue. Eureka procede per un accumulo di vuoti: i passaggi tra i capitoli, le risoluzioni di questi ultimi. Alonso relega al fuori campo le risposte, non appesantisce di senso o metafore la sua regia fatta di campi e controcampi. Alaina, dalla finestra di un casinò, osserva l’esterno (“1-7-4? 1-7-4?…”). Sadie si dirige da suo nonno, figura sciamanica che può avere una soluzione definitiva alla sua perdurante depressione. «You must remember: space, not time. Time is a fiction invented by men», sentenzia il nonno. Non sapremo mai cosa accadrà con esattezza dopo, restano solo delle piume e una tazza su quel divano, ma il viaggio di Eureka e delle anime che lo popolano è destinato a continuare. All’infinito.

Con questo nuovo capitolo di una filmografia ricca di derive e deviazioni, Alonso riprende il filo del discorso, di nuovo, rimasto sospeso con Jauja. Attraverso Eureka prosegue la ricerca del regista sull’immagine, sulla reiterazione di un gesto che si fa strada indagando l’animo umano, attraverso la produzione di immagini pure (nonostante qui registriamo una terza parte decisamente poco solida). Il suo cinema è di nuovo, come lo definiva Quintín sulle pagine di Film Comment ai tempi di Jauja, un ponte tra il mondo contemporaneo civilizzato e scenari ai margini del mondo (o del cinema) e dominati dalle barbarie o da istinti primordiali (il primo capitolo). Non avremo mai risposta a questo perpetuo vagabondare dello sguardo, non deve esserci lo svelamento di alcun mistero. Ciò che resta è solo la traccia di un passaggio, priva di qualsivoglia movimento rassicurante per gli uomini.

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