Presentato nella sezione Grand Public della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Butcher’s Crossing di Gabe Polsky è l’adattamento del romanzo omonimo di John Williams.
1870, Will Andrews (Fred Hechinger) conosce il cacciatore di bisonti Miller (Nicolas Cage) e insieme decidono di organizzare un battuta di caccia in una valle isolata delle Montagne Rocciose del Colorado. Ai due si aggiungono lo scuoiatore Charlie (Jeremy Bobb) e l’organizzatore Fred Schneider (Xender Berkeley). Agli inizi della seconda metà dell’800 la pelle di bisonte può farti arricchire, ma ormai le mandrie hanno iniziato a disperdersi e per quanto si possa andare ad Ovest diventa sempre più difficile organizzare battute di caccia. Ma Miller conosce un luogo in cui nessuno ha mai messo piede e che potrebbe farli diventare ricchi.
Un viaggio che riunisce persone diversissime tra loro: Will è giovane, ancora innocente e puro; Miller sembra avere come unico scopo nella vita quello di abbattere più bisonti possibili e appropriarsi della loro pelle; Charlie ama le donne e i piaceri offerti dalla città, il suo obiettivo è fare abbastanza soldi per vivere nell’agiatezza; Fred è un credente dedito all’alcolismo e privo di una mano. E il loro rapporto, in condizioni sempre più estreme, non farà altro che degenerare.
Quello portato in scena da Gabe Polsky è un viaggio di avvicinamento alla follia, favorita sia dal rapporto con un paesaggio di fronte al quale non si può nulla e che domina piuttosto che essere dominato (verrà detto: <<questo luogo non ci appartiene>>), sia da alcuni tratti caratteriali latenti che si manifestano nei quattro personaggi: l’ossessione di Miller che avrà effetti devastanti sulla stabilità del gruppo; la mascolinità aggressiva di Charlie sempre pronto a prendersi gioco degli altri; l’apparente fede profonda di Fred che non sarà difficile abbandonare per fare spazio a sentimenti di vendetta. E in tutto questo Will è allo stesso tempo spettatore e vittima che farà esperienza degli istinti più bassi dell’uomo nonostante gli avvertimenti che gli sono stati dati. Ad emergere è un’America che ha ormai perso la propria innocenza, che sta cambiando in modo vertiginoso e sempre più dominata da una legge del mercato che vanifica ogni tentativo di garantirsi un futuro.
Peccato che ben presto si scade nel didascalico, i personaggi restano sempre sulla superficie e Polsky non è in grado di creare un’atmosfera che tenga lo spettatore ancorato alla sedia. Tenendo anche conto di un ritmo ai limiti del catatonico che non riesce a restituire il senso di attesa e frustrazione provato dai quattro. E alla fine Butcher’s Crossing si riduce ad un parabola moralista (e ambientalista, si vedano le didascalie conclusive) di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.