Rocky 45 anni dopo: La collaborazione vincente tra Avildsen e Stallone

Rocky

Quando Rocky uscì nelle sale americane 45 anni fa, molto prima di diventare un cult, fu senza dubbio un trampolino di lancio per Sylvester Stallone e in una certa misura anche per il suo regista John G. Avildsen. Per il primo si trattava di una vera e propria fuoriuscita dai bassifondi dell’industria cinematografica hollywoodiana, per il secondo fu quasi più una consacrazione. Avevano esordito rispettivamente come attore e regista tra la coda degli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo. Entrambi lavorarono in film di sexploitation (o softcore), o comunque in produzioni a basso costo con retribuzioni spesso quasi nulle. Stallone non fu nemmeno accreditato nelle sue comparse in diversi primi film a cui partecipò, mentre Avildsen trovò almeno un minimo di notorietà con Salvate la tigre (Save the Tiger, 1973), che valse l’Oscar a Jack Lemmon.

Al momento della sua comparsa nei cinema, il personaggio di Rocky con tutto l’immaginario che si portava dietro, rispecchiava quindi la vita di Stallone, ma anche il percorso professionale di Avildsen. Rocky è un trentenne che vive al soldo di un usuraio e che svolge incontri clandestini di pugilato, l’unica cosa che gli riesce bene. Non ha mai avuto l’occasione decisiva per emergere da quella sua condizione, fino a che non viene scelto tra “un milione di possibilità” per combattere in un incontro celebrativo del bicentenario della Dichiarazione d’Indipendenza, in quella stessa Philadelphia e contro il campione dei pesi massimi Apollo Creed (Carl Weathers). Chiaramente, con delle simili premesse non si sarebbe potuto trattare di un semplice match dimostrativo, ma dello scontro di due estremi dell’America, della grande opportunità che può far scalare le vette della popolarità a uno sconosciuto nell’arco di massimo 15 round. Dinamica tra l’altro avvenuta realmente con l’incontro tra Muhammad Ali e Chuck Wepner, che ispirò Stallone.

Rocky

Avildsen non nascose mai un certo interesse per gli “underdogs”, le cui vicende di rivalsa nei confronti di coloro che “ce l’avevano fatta” potevano costituire un buon dramma. La sceneggiatura che Stallone portò con sé era la condensazione più pura di questa tematica, in aggiunta al fatto che chi l’aveva scritta viveva ancora in una situazione di disagio economico. Sulla base di ciò, è possibile avanzare l’ipotesi che il primo Rocky rientri in quella fase che può riconoscersi come la più significativa per l’autorialità di Stallone. Per lui gli anni Settanta furono infatti un periodo di ampia creatività: scrisse un romanzo dal titolo Taverna Paradiso (Paradise Alley), ambientato nel quartiere newyorchese di Hell’s Kitchen nel secondo dopoguerra, dove a condurre la narrazione sono tre fratelli italoamericani che tentano di uscire dalla melma della precarietà lanciando uno di loro nel business del wrestling clandestino.

Appare più nitido allora il repertorio di elementi che insieme possano costruire una storia di Sylvester Stallone: personaggi americani di origine italiana inseriti in un contesto di difficoltà economica e sociale, che cercano di emergere attraverso lo sport, o quel che ne faceva rimanere l’illegalità metropolitana dell’epoca. È facile a questo punto riscontrare in opere come queste il sapore autobiografico, che garantisce autenticità alle situazioni rappresentate con i suoi personaggi, poiché raccontate da uno di loro. Taverna Paradiso vide la pubblicazione solo nel 1977, dopo il successo di Rocky, e la relativa trasposizione cinematografica venne realizzata nel 1978, in cui Stallone figurava come regista, sceneggiatore e interprete. La volta successiva in cui si verificò tale coinvolgimento in un film da parte di Stallone fu con Rocky II, appena un anno dopo, ma con risultati stilistici già molto distanti, preludio agli sviluppi di carriera che il decennio seguente ormai alle soglie stava per riservare.

Negli anni Ottanta le strade di Stallone e Avildsen si separarono, i due entrarono nella fase di consolidamento del successo ottenuto con Rocky. Stallone ne diresse tutti i sequel fino a Rocky IV (1985), portando avanti nel frattempo la sua costruzione divistica, particolarmente legata al film d’azione e alla saga di Rambo. Stallone si conferma tra il pubblico come un perfetto esempio di eroe americano, ma su un versante radicalmente diverso da come avvenne negli anni del suo grande debutto, con le conseguenti implicazioni e interpretazioni politiche del suo personaggio. Avildsen, dopo aver lavorato con Marlon Brando, John Belushi e Dan Aykroyd appose la sua firma come regista e co-montatore alla serie cinematografica di The Karate Kid, avviata nel 1984: di nuovo una storia di rivalsa, stavolta all’interno di un gruppo di adolescenti della West Coast, ma pur sempre con lo sport come mezzo di confronto.

Rocky

Avildsen non si è mai trovato d’accordo nel dare un seguito a dei film come Rocky o The Karate Kid. Tuttavia, per quest’ultimo franchise lavorò fino al terzo capitolo, uscito nel 1989, ma soprattutto, l’anno seguente, tornò a incontrare Stallone sul set per dirigere il quinto capitolo della saga di Rocky. La parentesi degli anni Ottanta si era chiusa per entrambi e Rocky V (1990) è sembrato avere tutto l’aspetto di un ritorno alle origini della loro collaborazione: in questo film Rocky, dopo aver vissuto l’apice del successo e della rilevanza mediatica (come Stallone), torna nella sua Philadelphia per ricominciare da capo; rivive quindi la storia della sua ascesa attraverso gli occhi del suo allievo Tommy Gunn (Tommy Morrison), ma con un esito amaro. Rocky V non è ricordato come un grande successo di pubblico, il finale avrebbe potuto lasciare intendere una reale chiusura della saga, riaperta poi da Rocky Balboa (2006), diretto da Stallone, e dai più recenti spin-off di Creed (2015) e Creed II (2018).

Ma ciò che conta e che è opportuno notare è che con Rocky V Avildsen e Stallone “tornano a casa”. I due riprendono in mano lo stile e l’estetica dell’umiltà metropolitana, ricominciano a parlare di quei temi e di quei luoghi per cui le loro strade si erano già incrociate nel 1976. E probabilmente non potevano essere diverse da queste le premesse per una loro nuova collaborazione (per di più per un sequel): sia l’uno che l’altro hanno dimostrato nella loro carriera di avere buon intuito nella stesura e gestione di storie che avessero al centro l’affermazione sociale di individui mediante gli sport da combattimento o le arti marziali.

Stallone fece confluire le sue idee e la sua esperienza nello script del primo Rocky, trovando poi in Avildsen un compagno di viaggio forse insostituibile, che con quella regia vinse l’Oscar nel 1977. Quella stessa sera ritirarono il premio come Miglior film anche i due produttori Irwin Winkler e Robert Chartoff, dopo aver avuto fiducia nel progetto di uno sconosciuto (che nel frattempo era salito sul palco con loro) che non ci si aspettava potesse arrivare così in alto. Quella di Rocky Balboa è la storia di un’occasione coltivata e vissuta al meglio che lo accomuna a tutte le persone che con affetto gli diedero vita sul grande schermo.

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