Rapito, la recensione: Bellocchio è sempre più solenne

Da poco vincitore del David di Donatello al miglior regista per Esterno Notte, Marco Bellocchio arriva a Cannes con Rapito (trailer), film che, anche se non dichiaratamente impegnato, attira su di sé l’attenzione di una grande fetta di pubblico e soprattutto di critica, portando al cinema un’importante riflessione sulla religione.

Come avviene spesso nei film del regista, si parte da un caso di cronaca realmente accaduto, in questo caso a Bologna nel 1858. In un periodo delicato come quello del Risorgimento, la Chiesa guidata da papa Pio IX (Paolo Pierobon) sente più che mai il dovere di consolidare il proprio potere per non soccombere ai movimenti di unificazione in atto nel territorio italiano. In questo quadro storico complesso e caotico si inserisce la vicenda di Edgardo Mortara (Enea Sala), bambino ebreo che viene sottratto alla famiglia dalle autorità papali per un sospetto battesimo che lo avrebbe reso cristiano e, quindi, sotto la giurisdizione del papa.

Come si evince dal titolo suggestivo del film si tratta di un rapimento vero e proprio (come quello di Aldo Moro in Esterno Notte) a cui i familiari non si rassegnano per due ordini di motivi: il primo è quello affettivo, ovvero il legame tra un bambino di 8 anni ed i suoi genitori, il secondo, che sembra sempre passare in secondo piano rivelandosi alla fine il cardine del film, è quello religioso. Se infatti nel confronto tra il delegato del papa rapitore (Renato Sarti) e la madre derubata (Barbara Ronchi) quest’ultima riesce inizialmente a conservare una certa compostezza, è proprio quando vede il crocifisso al collo del figlio che impazzisce, trasformando subito il sentimento di angoscia per un figlio perduto nella strenua difesa di un’identità religiosa calpestata. 

Che Bellocchio avesse intenzione di fare un film sulla religione era abbastanza chiaro dall’insistenza con cui essa ritorna quasi come personaggio o immagine onnipresente nei suoi ultimi film. Chiudendo il documentario sul suicidio del fratello gemello Marx può aspettare con l’accorata conversazione con un padre gesuita e ritornando dopo Buongiorno, notte alla figura di Aldo Moro, uomo molto più religioso che politico, sembra proprio che il regista voglia fare chiarezza su un aspetto della sua vita con cui non ha mai fatto davvero i conti. Nonostante, infatti, l’educazione cattolica di Bellocchio si riveli fondamentale nel suo percorso artistico, possiamo dire che solo nel caso de L’ora di religione il regista si sia effettivamente confrontato con il tema della fede e delle sue implicazioni.

Se da una parte questa continua ricerca del confronto con il sacro può risultare alquanto sorprendente per un uomo che ha sempre creduto nei valori della politica e del laicismo, dall’altra può essere considerata un tentativo da parte di Bellocchio di chiudere un cerchio e ricongiungersi con le sue origini, in particolare con quella rigida educazione cattolica che in Rapito ritroviamo nei riti e nelle frequenti formule in lingua ebraica che Enea è invitato a recitare dalla madre.

La sceneggiatura del film, scritta insieme a Susanna Nicchiarelli, ci offre un ritmo sostenibile nella prima parte ma si indebolisce via via dilatando i tempi e mettendo troppa carne al fuoco. Bellocchio vuole probabilmente mostrare la simultaneità e la rapidità degli eventi che portano allo sgretolamento del potere della Chiesa negli anni del Risorgimento ma, in questo modo, rischia più volte di farci dimenticare di Edgardo che, alla fine del film, risulta molto più distante che nella prima parte. 

Anche il finale fa pensare ad un Bellocchio diverso, finalmente più maturo, si potrebbe dire. La scena dell’assalto al carro funebre del papa, che sembra essere un fondamentale punto di svolta della trama e l’occasione perfetta per inserire uno dei soliti finali alternativi del regista e far fuggire per sempre Edgardo, lo mostra invece in un attimo di delirio che però non ha alcuno sbocco narrativo se non quello del suo pentimento. Bellocchio non gioca più con i finali: guarda alla storia con interesse e lascia che essa parli da sé.

 «É un film che dovrebbe commuovere», afferma Bellocchio, ed effettivamente l’interpretazione del giovane Enea Sala è commovente, ma nelle parole e soprattutto nelle aspirazioni del regista c’è molto di più. Approssimandosi alla fine di una carriera impeccabile, ricca di svolte e cambi di rotta, il regista sembra cercarne la degna conclusione e infine la trova nel sacro. Che sia questo il terreno più fertile per un artista come Marco Bellocchio?

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.